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Smart working, remote working e south working: mettiamo un po’ d’ordine
Ci troviamo in un momento storico in cui alcune persone possono scegliere dove vivere e lavorare. Lo smart working, da non confondere con il remote working estensivo e forzato sperimentato durante la pandemia, si basa infatti sulla possibilità da parte del lavoratore di scegliere dove e quando lavorare, in assenza di forme rigide di controllo. Una soluzione che, in assenza di vincoli spaziali, potrebbe convivere con il south working e con la decisione di molti lavoratori di spostarsi dalle città verso zone d’Italia considerate periferiche (paesi di montagna, campagne, piccoli borghi ecc.), modificando la geografia del lavoro.
È dal 2000 che l’Osservatorio Diversity, Inclusione e Smartworking di SDA Bocconi studia il tema della flessibilità, spaziale e temporale, del lavoro, prima ancora che venisse nominato smart working e/o lavoro agile. Negli ultimi anni, tale flessibilità, a differenza della precarietà delle relazioni di lavoro con cui non deve essere confusa, è stata un fenomeno episodico che ha coinvolto poche organizzazioni e pochi lavoratori all’interno delle organizzazioni. Per questo motivo, da un punto di vista accademico abbiamo risultati ancora limitati, parziali e spesso incoerenti gli uni rispetto agli altri[1]. Questa è tipico delle discipline manageriali che si trovano a rincorrere la realtà mentre accade. Quindi, in questa situazione confusa, ciò che si può fare è offrire modelli di analisi e d’interpretazione, lenti attraverso cui leggere il fenomeno dello smart working mentre si sviluppa. Ovviamente, per fare questo, ci vuole esperienza di ricerca e non ci si può limitare a saltare sulla moda disciplinare del momento. Con questo contributo vogliamo fare ordine nel dibattito affinché quest’ultimo sia più informato e consapevole.
La situazione di emergenza sanitaria ha imposto l’adozione forzata del lavoro da remoto o remote working. Tale forzatura si è resa necessaria in maniera estensiva per permettere alla aziende di andare avanti con la propria attività e garantire il lavoro ai dipendenti, al di là di ogni convinzione maturata precedentemente sull’efficacia e sull’efficienza del remote working. Ciò ha richiesto un grande sforzo tecnologico, organizzativo e manageriale per implementare in tempi velocissimi il remote working – che è coinciso, nella maggior parte dei casi, con l’home working – e subito dopo per la gestione dei lavoratori che si sono trovati a svolgere il proprio lavoro a distanza spesso per la prima volta. È importante ribadire che il remote working estensivo e forzato sperimentato durante la pandemia non è il lavoro agile o smart working[2]. Per esempio, secondo la legge 81/2017 il lavoro agile è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, mediante accordo tra le parti, che si svolge senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, e che presuppone l’uso di strumenti tecnologici per il suo svolgimento. Si tratta di una modalità che si fonda sia sulla dimensione spaziale («da ogni luogo»), sia su quella temporale («quando vuoi»). Lo smart working può integrarsi con il lavoro tradizionale e/o sostituirsi a esso al fine di rispondere a esigenze di gestione del conflitto lavoro-tempo libero e si fonda sull’idea che non conta la presenza in ufficio e/o lavorare durante determinati orari per essere un «bravo lavoratore». Lo smart working, quindi, per essere tale deve prevedere una relazione con l’organizzazione basata sulla responsabilità in assenza di forme rigide di controllo; uno stile manageriale fondato sulla delega, la fiducia, l’autonomia; la gestione del lavoro per obiettivi e la programmazione delle attività secondo una logica di progetto; la manutenzione del clima e del senso di appartenenza attraverso momenti di scambio e di confronto nel gruppo di lavoro e momenti di dialogo tra il responsabile e i singoli lavoratori per comprendere i bisogni e orientare la crescita e lo sviluppo. La cultura dello smart working, dunque, non prevede «forzature», ma si basa sulla possibilità di scegliere dove e quando lavorare con responsabilità e nel rispetto sia delle esigenze dell’organizzazione sia del lavoratore. Lo smart working non è mai tutto o niente: si può basare sull’alternanza tra i tempi e i luoghi e/o sulla possibilità di costruire ad personam come organizzare spazio-temporalmente la propria prestazione. Un modo di lavorare, quindi, fluido, dinamico e sostenibile per tutti gli attori in gioco.
Uno dei pilastri dello smart working è la flessibilità nello spazio. Questo ha portato all’attenzione il fatto che un lavoratore possa decidere di lavorare dove preferisce scegliendo non solo tra l’ufficio, la propria abitazione e/o un’altra postazione (per esempio, uno spazio di co-working ecc.), ma anche un luogo lontano da quello dove ha sede l’organizzazione. In particolare, si è iniziato a parlare, in Italia, di south working. Durante la pandemia un numero non trascurabile di lavoratori in remote working più o meno obbligato a causa del lockdown ha deciso di trasferirsi temporaneamente nelle regioni del Sud Italia, vicino quindi alla propria famiglia di origine. Secondo un’indagine svolta da Datamining[3] su un campione di duemila interviste, l’85 per cento «andrebbe o tornerebbe a vivere al Sud se fosse loro consentito, e se fosse possibile mantenere il lavoro da remoto». Queste dichiarazioni, oggetto di dibattiti accesi, di critiche e preoccupazioni[4], devono necessariamente essere contestualizzate all’interno del modello organizzativo e culturale promosso dallo smart working e dalla digitalizzazione che sta coinvolgendo in modo massivo tutte le organizzazioni. Lo smart working non prevede un controllo del lavoratore in relazione al luogo da dove eroga la prestazione e può prevedere, da un punto di vista spaziale, il lavoro da remoto e/o un’alternanza tra lavoro in sede e lavoro da remoto (modello ibrido). Da questo punto di vista, il south working sarebbe possibile se e solo se le organizzazioni lasciassero ampia libertà e autonomia ai propri lavoratori nella scelta di dove e quando lavorare. Un modello ibrido che imponga la presenza alcuni giorni alla settimana e/o al mese – un modello che limita, quindi, la libertà e l’autonomia del lavoratore – invece, renderebbe il south working più complesso da organizzare e gestire.
Come ogni processo di innovazione sarebbe utile leggerne sia le potenzialità, sia i limiti relativamente a tutti i livelli (individuale, organizzativo e sociale) e agli attori in gioco (i lavoratori, le imprese, i sindacati, le città ecc.), orientando le scelte manageriali e le politiche pubbliche secondo una prospettiva dinamica e aperta ai cambiamenti. Contano, in questo contesto, sia le decisioni degli attori privati, sia le decisioni degli attori pubblici.
Sul fronte dei lavoratori e delle organizzazioni si è già scritto molto relativamente agli effetti potenziali[5]. Qui, preme sottolineare che il rischio di frantumazione dei legami organizzativi può derivare molto di più dalla precarietà, dai processi di esternalizzazione, dall’adozione di una prospettiva di breve termine che non dallo smart working. Da quando le leggi sul lavoro hanno favorito e legittimato la precarietà, sono stati ben pochi i contributi da parte degli studiosi del tema sui rischi di tale dinamica. Farlo adesso solo con riferimento allo smart working è un po’ tardi e un po’ pretestuoso.
Per quanto riguarda le città, lo smart working combinato con il south working, può modificare la geografia del lavoro in Italia. Inoltre, è forse sbagliato parlare solo di south working perché la scelta dei lavoratori può riguardare altri luoghi considerati periferici: le terre alte, ossia i paesi di montagna, le aree interne, ossia i paesi con un limitato accesso ai servizi, le campagne ecc. Ossia può riguardare tutto ciò che è stato considerato marginale fino a poco tempo fa. Il ritorno dei lavoratori della conoscenza al Sud e/o la loro dispersione territoriale è una minaccia per le città globali che hanno fatto della capacità di attrarre questi lavoratori uno dei fattori del loro successo, ma potenzialmente è un’opportunità per tutte le altre città e/o zone che possono migliorare il loro capitale sociale. Questo miglioramento non significa solo più consumi e/o consumi di qualità più elevata, ma anche attivazione di processi sociali di progresso in senso lato che le comunità locali devono saper cogliere. Perché ciò avvenga è necessario che ci siano infrastrutture e servizi adeguati (reti di telecomunicazione, reti di trasporto, servizi educativi e sanitari ecc.) e un ambiente sociale inclusivo. Non dimentichiamo che le persone abbandonano le zone periferiche non solo per motivi economici, ma anche per motivi sociali. Dal loro canto le città globali devono tornare a essere attrattive, sostenibili, rivedere i loro piani urbanistici e immobiliari, rivedere il costo e la qualità della vita. Ci troviamo in un momento in cui alcune persone (non dimentichiamo infatti che lo smart working e il south working riguardano solo alcune categorie professionali, ossia i lavoratori della conoscenza che lavorano in specifici settori e hanno in genere una remunerazione elevata[6]) possono scegliere dove vivere e lavorare. Le città e i borghi, il centro e la periferia entrano in competizione. Non sappiamo ancora quale sarà l’esito di questo processo, ma alcune rendite di posizione potranno essere messe in discussione. Forse, in questo dibattito entra in gioco anche il fatto che la regione e la città che prima dello scoppio della pandemia erano considerate un punto di riferimento per l’Italia, ossia la Lombardia e Milano, abbiano dimostrato le loro mancanze, le loro inadeguatezze manageriali, organizzative e sociali.
Ci troviamo, quindi, in un momento di possibile cambiamento. Ad oggi non sappiamo ancora se e quanto lo smart working sarà adottato dopo la fine della pandemia, con quale forma e dove i lavoratori sceglieranno di vivere e lavorare. Il compito di chi studia questi fenomeni è di fornire delle lenti per leggere la realtà in movimento, sottolineare gli aspetti negativi e quelli positivi, fare emergere gli interessi in gioco. Noi cercheremo di farlo in questo blog così come facciamo da vent’anni a questa parte.
[1] S. Basaglia, Z. Simonella, S. Cuomo, «Lo Smartworking tra moda, retorica e pochi fatti», in economia e politica, 10 luglio 2020.
[2] Su E&MPlus sono stati pubblicati diversi contributi sul tema: «La fiducia alla base del lavoro agile», 20 maggio 2020; «Per favore, non chiamiamolo “smart working”», 20 aprile 2020; «Una nuova divisione del lavoro è possibile?», 26 marzo 2020; «Come cambia il lavoro ai tempi del coronavirus», 26 febbraio 2020.
[3] «Giovani e laureati in economia e ingegneria: i south worker sono 45 mila. Ma per attrarre più talenti servono servizi migliori», Business Insider Italia, 16 novembrre 2020.
[4] «La docente della Bocconi stronca il southworking: “Danneggia imprese, lavoratori e società: il Sud non deve essere dormitorio del Nord”», Business Insider Italia, 2 aprile 2020.
[5] Basaglia, Simonella, Cuomo, cit.
[6] J.I. Dingel, B. Neiman, «How many jobs can be done at home?», Journal of Public Economics, 189, 2020.