Articolo 3
Contro le discriminazioni, a favore delle differenze
Dalla recente campagna della Coop per promuovere la parità di genere e combattere le disparità alla polemica sul genere nel linguaggio delle professioni innescata da Beatrice Venezi sul palco dell’Ariston: quello che manca è un’attenzione a non neutralizzare la differenza in nome della parità.
In occasione della Giornata internazionale della donna, vogliamo trattare due casi: la campagna della Coop sulla parità di genere e il tema dei sostantivi di genere nelle professioni rilanciato da Beatrice Venezi in occasione del 71° Festival di Sanremo.
Partiamo dalla Coop, uno dei più importanti attori della grande distribuzione italiana, che ha lanciato una campagna dal titolo «Close the Gap. Riduciamo le differenze» con l’obiettivo di «promuovere la parità di genere femminile e combattere le disparità»[1].
La campagna si articola in quattro azioni: «Per una vera parità: azione»; «per cambiare la cultura: formazione»; «per ridurre l’IVA sugli assorbenti: petizione»; «per creare comportamenti più virtuosi: premiazione». Questa campagna ha degli aspetti positivi e negativi. Partiamo da quelli positivi. È importante che una grande organizzazione come la Coop abbia deciso di avviare un programma di formazione per tutti i dipendenti; ed è altresì importante che abbia deciso di coinvolgere in questa campagna e nelle relative azioni i fornitori (per ora i fornitori di prodotti a marchio Coop) perché questo coinvolgimento può fare da cassa di risonanza all’interno del network inter-organizzativo di Coop portando altre organizzazioni, magari di piccole e/o medie dimensioni, a iniziare a occuparsi del tema della diversità.
Ora, le dolenti note. Innanzitutto, il claim della campagna contiene, a mio avviso, un errore semantico. L’obiettivo delle politiche e delle pratiche di gestione della diversità dovrebbe essere combattere le discriminazioni e non ridurre le differenze. È possibile che con questo claim si intendesse la riduzione delle differenze di trattamento perché nella descrizione dell’obiettivo c’è un chiaro riferimento alle «disparità»; ma il claim è importante e qui qualcosa è rimasto, come si suol dire, nella penna. È importante che le differenze non siano neutralizzate: l’obiettivo è anzi abituare le persone affinché queste non si trasformino in stereotipi, pregiudizi e discriminazioni, limitando l’espressione di sé e l’accesso a posizioni e ruoli di vertice, o impedendo determinate esperienze lavorative.
Un secondo errore riguarda il riferimento alla composizione della propria forza lavoro. Nella campagna si legge: «Il 70 per cento dei dipendenti Coop è donna, oltre il 44 per cento dei membri del CdA è donna, oltre il 32 per cento dei ruoli direttivi è ricoperto da donne e sono donne più della metà dei soci volontari nel territorio». Colpisce che solo il 30 per cento dei dipendenti siano uomini. In questo dato c’è il segnale che qualcosa non funziona nei processi di assunzione, nella costruzione delle mansioni e/o nella costruzione delle professioni che caratterizzano la Coop. Su questo fronte, perché ci sia una situazione di effettiva parità tra i generi, la Coop dovrebbe tendere, nel futuro, a ridurre la percentuale di donne e aumentare drasticamente la percentuale di uomini. Per quanto riguarda il CdA, c’è un relativo equilibrio tra donne (44 per cento) e uomini (56 per cento). C’è, invece, uno squilibrio sul fronte dei ruoli direttivi (32 per cento di donne, contro il 68 per cento di uomini). A questo proposito, la Coop riconosce che «la strada verso la vera parità è ancora lunga». Però non è chiaro cosa sia la «vera» parità: ne esiste anche una «falsa»?
Per concludere, la campagna della Coop è certamente meritoria, ma sarebbe stato meglio una maggior cura di alcuni dettagli, che fanno però la differenza tra la retorica e la sostanza.
Passiamo ora al secondo caso. Intervenuta durante il recente Festival di Sanremo, Beatrice Venezi ha chiesto ai conduttori di essere chiamata «direttore d’orchestra», argomentando in questo modo: «Per me quello che conta è il talento e la preparazione con cui si svolge un determinato lavoro. Le professioni hanno un nome preciso e nel mio caso è direttore d'orchestra[2]”. Questa dichiarazione ha innescato un’ampia discussione sui media: c’è chi è a favore, chi è contro, chi pone la questione sul piano della lingua, chi su quello del potere, chi lo vede come occasione per criticare il politicamente corretto ecc. Non entro nel merito di tutte queste posizioni, ma mi preme sottolineare che, come evidenziato già a proposito dell’iniziativa della Coop, le differenze sono importanti e non dobbiamo nasconderle: penso, dunque, che non sia corretto limitare la professione al sostantivo maschile, chi è uomo e/o si sente tale può usare «direttore d’orchestra», chi è donna e/o si sente tale può usare «direttrice d’orchestra». Nel caso della scuola e dell’università, per esempio, abbiamo professoresse e professori, studentesse e studenti. All’ospedale ci sono infermiere e infermieri, dottoresse e dottori. In televisione, ci sono conduttrici e conduttori e potremmo continuare. Dobbiamo abituarci a considerare le professioni al maschile e al femminile. Man mano che la parità si diffonderà, non ci porremo più la questione.
[2] «Sanremo, Beatrice Venezi: “Direttore, non direttrice”. E i social si spaccano sulla scelta», La Repubblica, 6 marzo 2021.