Articolo 3

19/11/2020 Simona Cuomo

«We the people»: una prospettiva di leadership inclusiva

I discorsi di insediamento del neopresidente americano Biden e della sua vice Harris hanno proposto l’immagine di una nazione  attenta alle diversità,  e quindi impegnata  a porre le condizioni affinché tutte le persone possano vivere e lavorare esprimendo al meglio se stessi e le proprie competenze.

In questo anno così difficile per tutti, le recenti elezioni presidenziali in USA potrebbero rappresentare uno spiraglio di luce a cui guardare con fiducia. L’unione tra il presidente Biden e la sua vice Harris rappresenta, al di là di ogni appartenenza politica, un simbolo di inclusione e condivisione. In primis, un’immagine iconica di un uomo bianco di una certa seniority e di una donna più giovane e di colore uniti in segno di vittoria a sottolineare quanto siano l’uno la forza dell’altra. Un’immagine che ricorda come l’integrazione del maschile e del femminile, e più in generale delle differenze, possa generare un mondo in cui è possibile essere fedeli a se stessi senza mascherarsi per essere accettati.

Le biografie personali di entrambi evidenziano un percorso di vita poliedrico e tutt’altro che conformista[1]. Vite che potrebbero assomigliare alle esperienze vissute da molti, in cui l’intreccio del dolore e della rinascita, della passione e della sconfitta, dell’esclusione e dell’integrazione si accavallano in una trama poco prevedibile e non cercata. Inoltre, Harris entra nella storia come la prima donna, e la prima donna indo-americana, a diventare vicepresidente degli Stati Uniti, un fatto  epocale  per il progresso verso l’uguaglianza.

Infine, sono emblematici i discorsi post vittoria elettorale di entrambi. Una prima analisi del discorso di Biden, confrontato con quello di Trump del 2016[2], evidenzia quanto questi due speech – di due persone e di due visioni politiche differenti – non solo tematizzino questioni diverse fra loro nell’ambito delle personali visioni politiche (per esempio la questione ambientale vs le infrastrutture), ma propongano stili di leadership differenti. Trump risulta più orientato all’azione con un forte impegno a livello individuale sancito dall’uso frequente della prima persona singolare e riferimenti alla necessità di lottare. 

Biden è più inclusivo, elenca più volte ogni singolo stakeholder e non teme di usare parole più «deboli» quali cura, empatia, compassione, purpose. Soprattutto, fa sempre riferimento a una prima persona plurale, a un «noi», arrivando a dichiarare (anche con una certa retorica) che la sua è una vittoria di tutti: «We the people» (con riferimento al preambolo della costituzione americana).

Per quanto riguarda il discorso di Harris, molti hanno sostenuto che passerà alla storia per la visione «di una nazione dove tutti sono i benvenuti a prescindere da come appaiono, da dove vengono e chi amano», ossia una nazione dove è possibile non essere d’accordo su tutto, ma che è unita dalla certezza che la vita di ogni essere umano conta e merita dignità e rispetto. Una nazione dove ci si occupa gli uni degli altri, e dove si affrontano insieme le sfide. Un discorso dunque dove l’inclusione viene proposta non solo come valore ma anche come percorso necessario. Secondo gli approcci teorici più recenti, per essere inclusivi non basta più, o non solo, assicurare la rappresentanza numerica delle categorie in cui vengono raggruppate le identità sociali dei cittadini (genere, età, disabilità, etnia ecc.), ma diviene ulteriormente importante porre le condizioni affinché tutte le persone possano vivere e lavorare esprimendo al meglio se stessi e le proprie competenze. Per fare questo occorre ascoltare e interpretare i  bisogni delle persone e stimolare il loro contributo e la loro partecipazione, così come emerge dalle parole di Harris. Ovviamente ci auguriamo che alle promettenti premesse seguano azioni concrete.



[2] La trascrizione completa di entrambi i discorsi è disponibile su «Read Joe Biden’s President-Elect Acceptance Speech: Full Transcript», The New York Times, 9 novembre 2020; e su «Transcript: Donald Trump’s Victory Speech», The New York Times, 9 novembre 2016.

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