Articolo 3

22/01/2020 Simona Cuomo

L’uguaglianza di genere nel mondo delle professioni

Nonostante l’acceso dibattito pubblico e scientifico sulla questione dell’uguaglianza di genere nella società e nel mercato del lavoro, è sempre importante chiedersi se questa diffusa «sensibilità» si stia effettivamente traducendo in risultati concreti. Secondo il Global Gender Gap Report 2020 del World Economic Forum (WEF) [1], l’Italia, che nel 2018 aveva registrato un miglioramento significativo rispetto al 2017, passando dall’82° al 70° posto, nel 2019 è scivolata al 76° su un totale di 153 Paesi. Se il risultato positivo del 2018 era dovuto alla crescita all’interno dell’area della «Valorizzazione politica» delle donne, che mappa la partecipazione femminile alla gestione della cosa pubblica, e alla tenuta per quanto attiene le aree «Istruzione» e «Salute e sopravvivenza», dove di fatto la parità di genere è stata praticamente raggiunta, nel 2019 a penalizzarci è l’opportunità di partecipare all’economia del Paese (dove l’Italia ha purtroppo confermato un 118° posto).

In Italia, secondo gli ultimi dati Istat, il divario fra tasso di occupazione delle donne e quello degli uomini è del 18,9%. In Europa a far peggio è solo Malta. La situazione peggiora se le donne hanno figli. Nel nostro Paese l’11,1% delle madri con almeno un figlio non ha mai lavorato. Un dato che è quasi tre volte superiore alla media dell’UE, pari al 3,7% [2]. Superato lo scoglio dell’ingresso, persiste nel mercato del lavoro una diffusa «segregazione», cioè la presenza di veri e propri «silos» professionali che separano uomini e donne, riservando a queste ultime opportunità professionali, prospettive di carriera e salari differenti rispetti ai primi. Se questa situazione dipinta dal WEF rappresenta uno spaccato medio del mercato del lavoro italiano, una recente ricerca realizzata da Mopi [3] descrive per il mondo delle libere professioni (architetti, avvocati, commercialisti, ingegneri, notai) una situazione ancora più critica. All’indagine hanno risposto 653 professionisti, per lo più donne (81%): un segnale evidente di come il gender gap, in quanto tema sentito quasi esclusivamente da queste ultime, non abbia ancora assunto una dignità organizzativa. Inoltre la maggioranza dei rispondenti (50%) appartengono all’ordine degli avvocati che, forse a partire da una situazione di maggiore criticità lavorativa rispetto agli altri ordini, sembrano mostrare una maggiore attenzione alla questione della parità di genere. I dati mostrano ambienti in cui le donne si devono misurare soprattutto con il tema del doppio ruolo [4], del bilanciamento tra vita privata e attività professionale. È soprattutto per questi motivi che le professioniste scontano forme di discriminazione per quanto riguarda le opportunità di gestione di clienti più importanti per il business e conseguentemente per le opportunità di sviluppo della carriera [5] e di guadagno. Uno spaccato interessante dell’indagine sottolinea come, secondo l’opinione dei rispondenti, i clienti ritengano ancora più affidabile un professionista uomo. A questo si aggiunge l’esistenza di stereotipi fortemente radicati sul ruolo delle donne nella società, tali per cui le cure familiari restano soprattutto di pertinenza di queste rendendo difficile accettare «un chirurgo o un ingegnere donna». L’identità di genere, ancor prima della possibilità di misurare le competenze e le capacità, grava pesantemente sulla reputazione professionale. Questo immaginario culturale, spesso alimentato dall’assenza di politiche e pratiche organizzative orientate all’inclusione e alla gestione del work&life balance, rende gli ambienti professionali particolarmente ostili alla questione della parità di genere e quindi particolarmente «faticosi» per le professioniste donne, che molto spesso, soprattutto alla nascita del primo figlio, decidono di rinunciare alla carriera e al proprio sviluppo professionale.



[2] «Mercato del lavoro e capitale umano», ISTAT - Rapporto annuale 2019https://www.istat.it/storage/rapporto-annuale/2019/capitolo4.pdf

[3] Associazione per la promozione del marketing nelle professioni e patrocinata dal Comune di Milano e dagli Ordini di commercialisti, architetti, ingegneri e medici, https://www.mopi-italia.org/.

[4] È ancora la donna a occuparsi principalmente della casa nel 28 per cento dei casi. Percentuale che sale oltre il 50 per cento con la nascita del primo figlio. Di contro, alla nascita del primo figlio nessun professionista uomo smette di lavorare o decide di farlo part time. L’80 per cento degli uomini contro il 47 per cento delle donne afferma di continuare a lavorare come prima, il 10 per cento delle sole donne lavora part time e il 2 per cento delle donne ha lasciato il lavoro dopo il primo figlio. Un’alta percentuale di professioniste ritiene di essere stata discriminata nel proprio lavoro, e la percentuale passa dal 45 per cento delle donne senza figli al 60 per cento di quelle con figli. Mentre solo il 4 per cento degli uomini ritiene di essere stato discriminato sul posto di lavoro.

[5] Il 61 per cento dei rispondenti ritiene che nel luogo dove lavorano più del 70 per cento del management è di sesso maschile. Nel 66 per cento dei casi le posizioni apicali dei clienti sono ricoperte da uomini.

 

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