China Watching

21/09/2022 Cecilia Attanasio Ghezzi

Pechino torna al carbone

La lunga ondata di siccità che ha investito la Cina questa estate ha provocato un crollo di produzione di energia idroelettrica. Le miniere di carbone hanno dunque ripreso a funzionare a pieno ritmo e l’importazione del carbone russo ha raggiunto il suo picco. Il ritorno al carbone è però un fenomeno già in auge da qualche anno, imposto dal Governo centrale per far fronte alle conseguenze economiche dei lockdown. Pur essendo ben consapevoli della fragilità del loro territorio e delle conseguenze che potrebbero avere i cambiamenti climatici i politici cinesi hanno tuttavia deciso di tutelare l’autonomia energetica del Paese, con buona pace degli accordi di Parigi.

Lo scorso agosto abbiamo visto spegnersi lo skyline di megalopoli come Shanghai e Chongqing. Stabilimenti che assemblano macchine e device elettronici poi distribuiti nel resto del mondo si sono fermati per mancanza di elettricità. File chilometriche si sono formate di fronte alle colonnine di ricarica per le auto elettriche, mentre la portata dei fiumi si è ridotta al punto da impedire la navigabilità alle barche di una certa dimensione. I razionamenti energetici hanno interessato soprattutto le regioni sudoccidentali dell’immenso territorio cinese dove, fino a questo momento, non si erano mai viste. Nella regione del Sichuan, in particolare. Questa si approvvigiona all’80 per cento con l’energia idroelettrica prodotta dalle dighe del suo territorio, energia che viene redistribuita anche nel più popoloso est del Paese, e arriva ai poli produttivi delle regioni del Jiangsu, dello Zhejiang, dello Hunan, come alle città di Shanghai e Chongqing. Di fatto, l’idroelettrico del Sichuan fa fronte al 18 per cento dell’energia utilizzata nel Paese[1]. Quando piove.

Quest’estate il fiume Azzurro dimezzato dalla siccità si è tradotto in un dimezzamento dell’energia prodotta dagli impianti idroelettrici. Non solo. Lo stesso Ministero dell’agricoltura e degli affari rurali ha avvisato in una nota che i raccolti previsti in autunno sarebbero stati a rischio e il governo ha stanziato circa tre miliardi di aiuti per coltivatori e contadini. Il cambiamento climatico non fa sconti, e ci riguarda tutti. Aldilà della situazione interna alla Cina, infatti, le conseguenze della lunga ondata di siccità che l’ha investita stanno già avendo ricadute mondiali. Parte dell’energia idroelettrica perduta, infatti, è stata compensata con quella prodotta dal carbone. Le miniere cinese hanno ripreso a funzionare a pieno ritmo, e l’importazione del carbone russo ha raggiunto il suo picco. E il ritorno al carbone aveva caratterizzato anche il primo anno della pandemia: tra il primo e il 18 marzo 2020, infatti, le autorità cinesi avevano dato il permesso di generare più elettricità dal carbone di quanto non avevano fatto durante l’intero 2019. Di fatto, le centrali a carbone attualmente in costruzione una volta ultimate eguaglieranno da sole la capacità e la potenza di quelle in uso negli Stati Uniti. Questo nonostante appena un anno fa il presidente Xi Jinping in persona abbia promesso alle Nazioni Unite di arrivare al picco delle emissioni entro il 2030 e di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2060.

I politici cinesi sono ben consapevoli della fragilità del loro territorio e delle conseguenze che potrebbero avere i cambiamenti climatici. E seppure piani pubblici governativi in questo senso sono stati emanati sin dal 2006[2], di fronte al rallentamento economico la Cina ha scelto di tornare al carbone. Se dal 2010 al 2018 ha ridotto il consumo di carbone in maniera significativa (dal 72 al 58 per cento delle fonti energetiche) ed è diventato il Paese del mondo che investe di più in rinnovabili, nel 2020 si è trovato a dover dare priorità alle conseguenze economiche dei lockdown e, con il 13 per cento delle riserve di carbone dell’intero pianeta, Pechino ha deciso di tutelare la sua autonomia energetica e di continuare a creare sviluppo e lavoro nelle regioni più arretrate del Paese. Ma a quale prezzo? L’opinione pubblica cinese si è a lungo battuta contro l’inquinamento, specialmente quello atmosferico. Se – con buona pace degli accordi di Parigi – il carbone tornerà in auge, sarà disposta a tollerarlo? Come in tutto il mondo sono le generazioni più giovani a preoccuparsi per il futuro del pianeta, tra tutti la cosiddetta Generazione Z, quella nata tra il 1995 e il 2010. Ma poiché in Cina le politiche, non fanno eccezione quelle ambientali, sono scelte dai vertici e accettate (o fatte accettare) dalla popolazione, anche i più giovani si preoccupano più dell’occupazione e della lotta alla povertà che della protezione ambientale. Persino le aziende, in Cina abilissime a ritagliarsi nicchie di mercato, sono consapevoli che la coscienza ambientale, seppure indubbiamente in crescita, ha ancora molta strada da fare[3].

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