China Watching

28/06/2022 Cecilia Attanasio Ghezzi

Gli uiguri in Cina e il rischio genocidio

Le politiche di repressione del governo centrale ai danni della minoranza musulmana e turcofona della regione più occidentale della Repubblica popolare cinese sono note ormai da anni. Secondo alcuni osservatori tra il 2017 e il 2018 più del 12 per cento della popolazione adulta era detenuto in scuole vocazionali che differiscono dai campi di rieducazione solo per il nome. Diversi interventi repressivi sono stati messi in atto anche tramite politiche demografiche, tanto che nella regione la natalità è diminuita del 60 per cento tra il 2015 e il 2018. Se non siamo di fronte a un genocidio, come denunciano le organizzazioni per i diritti umani, si tratta almeno di una spregiudicata politica di sommersione etnica.

Lo scorso 9 giugno, il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che vieta l’importazione di prodotti realizzati attraverso il lavoro forzato degli uiguri. Sulla scia della legge varata a dicembre scorso dal Congresso statunitense, l’Ue ha sottolineato che la separazione dei bambini dalle loro famiglie, i programmi di sterilizzazione e il lavoro forzato nella regione autonoma dello Xinjiang «sono crimini contro l’umanità e possono costituire genocidio». Si tratta di una dura condanna nei confronti di Pechino, ma come ogni risoluzione non è vincolante. Di fatto è un modo per mettere pressione alla Commissione europea e agli Stati membri affinché promulghino una legge definitiva sul tema. Nel 2021 le importazioni statunitensi di beni provenienti dalla regione autonoma erano già diminuite del 61 per cento, a fronte di un aumento del 13 per cento di quelle dell’Unione europea. Nello stesso periodo, l’aumento di oltre il 100 per cento degli stessi prodotti verso il Vietnam, però, potrebbe indicare che è già stato trovato il modo di aggirare le sanzioni. Secondo il quotidiano di Partito China Daily nei primi quattro mesi del 2022, infatti, la bilancia commerciale della regione autonoma con l’estero sarebbe cresciuto di oltre il 33 per cento. Ma cosa sta succedendo alla minoranza musulmana e turcofona della regione più occidentale della Repubblica popolare cinese?

Gli ultimi, inquietanti, dettagli sulla repressione nei confronti della minoranza uigura dello Xinjiang – i cosiddetti «Xinjiang Police Files»[1] – raccolgono materiale hackerato dai server della polizia locale da una persona che comprensibilmente ha scelto di rimanere anonima. Adrian Zenz, antropologo della Victims of Communism Memorial Foundation, ha studiato, autenticato e reso pubblici quei documenti e ha formalizzato le sue conclusioni in un articolo pubblicato sul Journal of the European Association for Chinese Studies[2]. Il ricercatore tedesco, che dello studio degli abusi sulla popolazione uigura ha fatto il suo campo di studi presso il sopracitato think tank di Washington, spiega come le migliaia di immagini raccolte, dimostrerebbero che tra il 2017 e il 2018 più del 12 per cento della popolazione adulta della minoranza musulmana era detenuto in scuole vocazionali che, secondo analisti ed esuli uiguri, differiscono dai campi di rieducazione che la storia cinese ci ha insegnato a conoscere solo per il nome.

I documenti interni raccolti, poi, espliciterebbero la politica del Governo di trattarli come pericolosi criminali tanto che in un punto si spiega candidamente che «se dopo un colpo di avvertimento lo “studente” non si ferma continua a fuggire, il poliziotto armato dovrà sparare per uccidere». Inoltre, la trascrizione del discorso tenuto il 15 giugno 2018 dall’allora ministro della pubblica sicurezza Zhao Kezhi ed etichettato come «documento classificato», proverebbe come le stime che riferiscono di 1/2 milioni di uiguri internati in quegli anni potrebbero essere più che verosimili e, soprattutto, come lo stesso presidente Xi Jinping fosse informato delle campagne di «rieducazione», per «colpire alle radici» e «de-estremizzare» gli uiguri, nonché delle spese sempre maggiori per le strutture carcerarie nella regione e per il loro personale di sicurezza.

È per questo che le polemiche sulla recente visita dell’Alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, non si placano. Si tratta del primo viaggio in Cina del massimo funzionario delle Nazioni unite per i diritti umani in 17 anni, ma l’ex presidente cilena è accusata di essersi prestata a un tour propagandistico della regione e di aver avallato la retorica di Pechino. Il segretario di Stato statunitense, Antony Blinken, ha affermato che le condizioni imposte «non consentono una valutazione completa e indipendente della situazione dei diritti umani nella Repubblica popolare cinese, compreso lo Xinjiang». Washington, ha inoltre espresso preoccupazione per «gli sforzi della Cina per limitare e manipolare» la visita del commissario Onu.

Secondo quanto riporta la stessa Bachelet, il governo dello Xinjiang le avrebbe assicurato che la rete di «centri di formazione professionale è stata smantellata». Ma sono gli stessi documenti ufficiali della regione autonoma che mostrano come settori che richiedono lavoro intensivo come la produzione di cotone, di pomodori, del polisilicio per i pannelli solari e del vinile per le pavimentazioni, lavorano grazie ai trasferimenti forzati di forza lavoro in gran parte uigura. Questo tipo di politiche sono state implementate dal 2014, quando lo stesso Xi Jinping ha formalizzato l’idea di come bisognasse che le minoranze etniche lavorassero e studiassero la cultura cinese, anche perché era possibile collegare un’alta disoccupazione all’instabilità politica della regione[3].

Documenti ottenuti dall’Associated Press dimostrerebbero inoltre come in una contea della regione autonoma, si registrerebbe il più alto tasso di incarcerazioni del mondo. A Konasheher sarebbero state arrestate oltre 10mila persone per reati che spaziano dalla pesante accusa di terrorismo a più vaghe imputazioni tradizionalmente utilizzate contro i dissidenti politici. E tra di loro hanno un punto in comune: sono tutte uigure. Significa che una persona ogni 25 è un detenuto, uiguro. Per completare il quadro sulla repressione in atto, bisogna tenere a mente che nella parte meridionale della regione, soprattutto nei territori afferenti alle città di Hotan e Kashgar, la natalità è diminuita del 60 per cento tra il 2015 e il 2018. Statistiche più recenti descrivono un crollo del 24 per cento delle nascite nello Xinjiang contro la media del 4,2 registrata su tutto il territorio nazionale. Mentre nel resto del Paese si incentivano le nascite, nello Xinjiang l’installazione di spirali anticoncezionali nel corpo delle donne è cresciuto del 60 per cento dal 2014 al 2018 e, secondo un altro documento ottenuto da Zenz, nel 2019 nella sola città di Hotan oltre il 34 per cento delle donne in età fertile è stato oggetto di interventi di sterilizzazione. Tutto questo mentre vengono incentivati i matrimoni interrazziali e la popolazione han riceve incentivi per trasferirsi e metter su famiglia in Xinjiang. Se non siamo di fronte a un genocidio, come denunciano le organizzazioni per i diritti umani, si tratta almeno di una spregiudicata politica di sommersione etnica.

 



[2] A. Zeng, «The Xinjiang Police Files», Journal of the European Association for Chinese Studies, 3, pp. 1-56.

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