China Watching
Una marcia lunga 100 anni
Il 1° luglio si festeggerà con gran fanfara la nascita del Partito comunista cinese. È una data di comodo, perché sicuramente cellule del Partito esistevano già prima di quel luglio del 1921, mentre storicamente il primo Congresso si svolse solo il 23 luglio. Ma Mao Zedong non ricordava precisamente la data, e così nel 1941 si decise altrimenti. Cento anni dopo lo skyline delle principali metropoli si accenderà con i colori del Partito, l’esercito sfilerà e ci saranno manifestazioni e celebrazioni ovunque perché, come ha recentemente sottolineato l’attuale presidente Xi Jinping, saranno l’occasione di «educare e guidare l’intero Partito a portare avanti con forza la tradizione rossa»[1].
In quel primo Congresso del 1921, dodici uomini affascinati dall’ideologia marxista, decisero che quella era la via per sollevare un Paese devastato da alluvioni, carestie, guerra civile e corruzione. Ma fu dallo scontro con l’esercito nazionalista di Chiang Kai-shek che è nata la Repubblica popolare come oggi la conosciamo. Dopo la ritirata passata alla storia come «la Lunga Marcia», l’armata rossa capitanata da un giovanissimo Mao Zedong si era stabilita nel nord del Paese a Yan’an dove aveva instaurato un rapporto di mutua fiducia con le popolazioni locali, principalmente dedite all’agricoltura: il partito riduceva gli oneri dei contadini e aiutava i villaggi a resistere all’avanzata giapponese. Quando alla fine della Seconda guerra mondiale i giapponesi si ritirarono, le truppe di Mao ebbero la meglio su quelle di Chang Kai-shek. La «nuova Cina» sarebbe nata a breve, il 1° ottobre del 1949, e il Partito comunista si sarebbe imposto come l’unico con il diritto di mantenere il potere, ovviamente sotto la guida del Grande Timoniere Mao Zedong.
La sfida era quella di ricostruire il Paese, e con esso il popolo cinese, che all’epoca era per l’80 per cento analfabeta[2]. Mao credeva che la nuova ideologia sarebbe servita alla Cina a ritrovare i fasti antichi, il benessere economico e la pace. Dieci anni dopo il tasso di analfabetismo era dimezzato e Mao, che contestualmente doveva tenere a bada le lotte di potere interne al Partito, si lanciò in una serie di campagne che costarono la vita a decine di milioni di cinesi: su tutte il Grande balzo in avanti e la Rivoluzione culturale. Alla morte di Mao il Partito doveva ripensarsi se voleva sopravvivere.
Ci fu così il processo alla Banda dei quattro che scaricò le responsabilità di quelle odiate politiche su di loro. L’immagine del padre fondatore della nazione era salva ma in trent’anni la qualità della vita dei cinesi non era affatto migliorata tanto che se pure tutti volevano «i tre grandi oggetti» (un orologio, una bicicletta e una radio) erano in pochissimi a poterseli permettere. Fu Deng Xiaoping a nel 1978 a prendere le redini del Partito e della Repubblica e a capire che per salvarlo bisognava cambiare la narrazione: non più lotta di classe ma modernizzazione. Ma per salvaguardare il percorso politico intrapreso bisognava tenere fede ai «quattro principi cardinali»: nessuno poteva permettersi di criticare il socialismo, il maoismo, la dittatura del popolo o la leadership del Partito comunista.
Così nel 1978 fu inaugurata la cosiddetta epoca delle riforme e aperture, quell’«arricchirsi è glorioso» che portò a dieci anni di crescita superiori all’8 per cento ma anche a un’inflazione galoppante e a una corruzione sempre più evidente. Aprirsi all’Occidente significava anche conoscerne i valori e così, nella primavera del 1989, il Partito fu nuovamente sul punto di collassare.
Decine di milioni di cinesi scesero in piazza in oltre 300 città per protestare contro una classe politica che non ritenevano all’altezza, e la tensione crebbe fino al 4 giugno quando l’esercito di liberazione popolare irruppe in piazza Tian’anmen falcidiando centinaia (ma alcuni sostengono migliaia) di studenti. Quelli che seguirono furono gli anni della crescita a due cifre, della Cina fabbrica e motore economico del mondo: 600 milioni di cinesi fuori dalla povertà e il sangue e il ricordo di piazza Tian’anmen cancellati dalla promessa di benessere economico.
Per un po’ ha funzionato. Nel 2001 la Cina è entrata nel WTO e nel 2007 la sua economia è uscita indenne dalla crisi finanziaria globale grazie a una massiccia politica di stimoli e investimenti in infrastrutture. Le Olimpiadi del 2008 sono state l’occasione per mostrare al mondo l’ascesa compiuta e nel 2010 l’ex Regno di mezzo supera il Giappone: è ufficialmente la seconda economia del mondo. È in quello stesso anno che il numero di chi vive in città supera quello di chi vive in campagna; aumentano i salari, rallentano i tassi di crescita, la società invecchia e le aziende devono diventare più efficienti e innovative per sopravvivere.
Così quando nel 2012 Xi Jinping viene elevato al vertice del Paese, la crescita sta frenando, la corruzione dilaga e il Partito è di nuovo in crisi di legittimità. Xi fa immediatamente piazza pulita del concetto di primus inter pares: non è più la crescita economica che legittima il Partito, ma la sua leadership personale. Vuole che l’esercito e i quadri di ogni grado mostrino assoluta fedeltà al Partito, il quale a sua volta deve rafforzare il controllo sulla società. Il sogno cinese, teorizzato nei piani quinquennali, significa eliminare completamente la povertà e riportare la Cina al posto che le spetta nel mondo: una potenza temuta e rispettata che non sia seconda a nessuno. Nel frattempo Xi Jinping ha eliminato il limite dei due mandati per chi governa il Paese, e le celebrazioni per il centenario del Partito comunista cinese apriranno la strada al prossimo, importantissimo, appuntamento. Nel 2049 la Repubblica popolare festeggerà il centenario dalla sua fondazione e, se tutto va come il Partito ha deciso, la Cina sarà «un Paese socialista forte, moderno, armonioso e democratico». Al cui vertice potrà ancora sedere Xi Jinping.