China Watching

27/01/2021 Cecilia Attanasio Ghezzi

La mano visibile dello Stato

Negli ultimi anni in Cina è in corso una campagna governativa per contenere il potere politico ed economico dei principali imprenditori privati. Sempre di più, il Partito vorrebbe guidare le aziende attraverso un’influenza dei suoi quadri nelle decisioni manageriali per assicurarsi che anche il settore privato aderisca agli obiettivi strategici nazionali. Il caso di Alibaba, sotto osservazione per abuso di posizione dominante, e la recente sparizione del tycoon Jack Ma sono segnali evidenti di un ritorno a un più ferreo capitalismo a conduzione statale.

È bastato un video di 50 secondi per ridare vita ai titoli di Alibaba sulla borsa di Hong Kong: più 8,5 per cento in un pomeriggio, per un totale di 5 miliardi di dollari. Il 20 gennaio Jack Ma, fondatore di Alibaba e uno degli uomini più ricchi della Repubblica popolare cinese, è riapparso dopo quasi tre mesi di assenza per un evento online con i cento migliori insegnanti della Cina rurale. Si è detto dispiaciuto per non poter presenziare a causa della pandemia, e non ha fatto alcun cenno alla sua recente sparizione. Poi è ritornato nel silenzio e nell’assenza dalla scena pubblica.

Il 24 ottobre scorso si era scagliato pubblicamente contro il sistema finanziario di Pechino definendolo «un banco di pegni». Ma in Cina parole simili non sono ammesse. Pochi giorni dopo Shanghai e Hong Kong hanno sospeso l’offerta pubblica iniziale per Ant Group, una controllata di Alibaba nata per il microcredito, che doveva portare al collocamento di azioni per quasi 35 miliardi di dollari su entrambe le borse. Sarebbe stata la più grande Ipo nella storia finanziaria globale, ma l’autorità cinese di vigilanza sul settore bancario starebbe lavorando a una nuova regolamentazione che restringe le attività di credito e mette nuovi limiti alle aree di competenza, alla leva finanziaria e alle licenze.

Anche Alibaba – nello specifico la sua branca di pagamenti online Alipay – è sotto osservazione per abuso di posizione dominante. Ma informazioni precise al riguardo non ce ne sono. Come pure non è chiaro se l’improvviso ritiro dalla scena pubblica del tycoon sia una sua scelta o il frutto di decisioni prese a Zhongnanhai, il Cremlino cinese. Di certo Ma sapeva a cosa andava incontro. Una volta a chi gli chiese che ne pensava del Partito rispose: «Bisogna essere innamorati: mai sposare il governo, ma rispettarlo».

Fino a oggi con Alibaba era riuscito a farsi strada in un sistema di capitalismo a conduzione statale, competendo direttamente con il governo su molti campi: dai big data all’intrattenimento, dall’informazione alla finanza. È forse la fine del cosiddetto «capitalismo di bambù» che lui stesso ha contribuito a creare?

Il presidente Xi Jinping, complice anche le politiche di dazi inaugurate dall’amministrazione Trump, è sicuramente tornato indietro sulla stagione di riforme e aperture avviata quarant’anni fa da Deng Xiaoping. Se allora lo Stato si è gradualmente ritirato dal mercato lasciando il posto all’impresa privata e alla crescita esponenziale di ricchezza privata e innovazione, da qualche anno è chiaro che la paura di perdere il controllo spinge il potere politico a un’ingerenza maggiore negli affari delle aziende private. Specie sui colossi del settore IT.

Jerome Cohen, un professore di legge esperto di Cina, ha scritto sul suo blog che potremmo essere di fronte a «una nuova campagna centralizzata per contenere il potere politico ed economico dei principali imprenditori privati che si rifiutano di seguire pedissequamente la linea del Partito»[1]. E i segnali che si stia andando in quella direzione in effetti ci sono.

Lo scorso settembre il vicepresidente della Federazione dell’industria e del commercio Ye Qing ha proposto di costruire «un moderno sistema di imprese private con caratteristiche cinesi» con la sezione interna a ogni azienda del Partito dedicata alla scelta e al controllo delle risorse umane[2]. Un documento ufficiale dello stesso mese afferma che il Partito vorrebbe guidare le aziende attraverso un’influenza maggiore dei suoi quadri nelle decisioni manageriali per assicurarsi che anche il settore privato aderisca agli obiettivi strategici nazionali[3].

Nicholas Lardy, economista del the Peterson Institute for International Economics, ha sottolineato come le aziende di Stato cinese si stanno accaparrando una fetta sempre maggiore del credito bancario mentre il settore privato non si espande più a quella velocità a cui ci aveva abituato negli ultimi anni, tanto che all’Atlantic ha dichiarato che «ha smesso di crescere»[4]. Ecco, anche se non è chiaro se per una rinnovata ricerca di autarchia o per una crescente necessità di controllo, è evidente che Pechino stia tirando le redini dei principali attori dell’economia del Paese. E quello che è certo è che non le scioglierà a breve.

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