China Watching

22/11/2020 Cecilia Attanasio Ghezzi

RCEP: un nuovo motore per la crescita asiatica

Dopo otto anni di contrattazioni, 15 Paesi dell’area Asia Pacifico hanno firmato un accordo di libero scambio che interesserà circa un terzo della popolazione e del PIL globale e che non include né gli Stati Uniti né alcuno dei Paesi europei. Per la Cina questo rappresenta sicuramente un ottimo affare: il RCEP le permetterà di presentarsi come promotrice della globalizzazione e della cooperazione multilaterale, di far pesare la sua influenza economica su tutta l’area, di ridurre la sua dipendenza dai mercati e dalla tecnologia europea e statunitense.

Si chiama Regional Comprehensive Economic Partnership, o RCEP, e passerà alla storia come l’accordo commerciale più grande al mondo. 15 Paesi dell’area Asia-Pacifico – inclusi Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda – si sono accordati sul libero scambio in un’area che rappresenta circa un terzo della popolazione e del PIL globale e non include né gli Stati Uniti né alcuno dei Paesi europei. È anche la prima volta che le potenze storicamente rivali dell’Asia orientale concludono un accordo che, secondo alcune stime, potrebbe aumentare di 186 miliardi la ricchezza annua globale[1] e contribuire con 0,2 punti percentuali al PIL di ognuno dei Paesi firmatari. L’accordo è particolarmente significativo perché i beni prodotti dai Paesi membri avranno bisogno di un’unica certificazione per essere venduti in tutta l’area. Tuttavia, questo non interviene in settori importanti come l’agricoltura a causa della grande diversità dei Paesi coinvolti: non si è riusciti a definire criteri standard che potessero andare bene a tutti.

Ci sono voluti otto anni, ma il 15 novembre, ovvero l’ultimo giorno del 37° vertice dell’Associazione delle nazioni del sud est asiatico (ASEAN) ospitato virtualmente dal Vietnam, il premier Nguyen Xuan Phuc ha potuto affermare soddisfatto che «il completamento dei negoziati è un segnale forte per il ruolo dell’ASEAN nel sistema di commercio multilaterale, per lo sviluppo della filiera di produzione e distribuzione interrotta dalla pandemia e il supporto alla ripresa economica». «Dopo otto anni di negoziati, lacrime, sangue e sudore, finalmente siamo arrivati a un accordo che, in un momento così difficile, mostra la volontà di aprire i mercati invece di affidarsi a misure protezionistiche», gli ha fatto eco il ministro del commercio malese Mohamed Azmin Ali.

Tra i punti del trattato commerciale, che coinvolge 2,2 miliardi di consumatori per un PIL totale di oltre 26mila miliardi di dollari, c’è la cancellazione dei dazi doganali per il 92 per cento dei beni commerciati tra i Paesi, regole comuni sulle catene di produzione e distribuzione, sull’e-commerce e sul rispetto della privacy dei consumatori. Non ci sono ancora dettagli su quali prodotti e quali Paesi vedrebbero una riduzione immediata dei dazi ma Pechino ha già definito l’accordo «una svolta storica». Grande assente tra i firmatari è però la terza economia dell’area, ovvero l’India. Il suo primo ministro Narendra Modi si è detto timoroso di un aumento del deficit commerciale con la Cina e preoccupato per l’influenza che avrebbe potuto avere sul benessere della sua popolazione, specie sulle fasce più vulnerabili. Il subcontinente potrà comunque rientrare in qualsiasi momento.

Come tutto questo potrà influenzare le dinamiche geopolitiche regionali è ancora da vedere. Sicuramente per la Cina, che rappresenta il più grande mercato regionale con 1,3 miliardi di consumatori, è un ottimo affare. Le permette sia di presentarsi come promotrice della globalizzazione e della cooperazione multilaterale sia di far pesare la sua influenza economica su tutta l’area dettando le regole commerciali alla regione (si noti come un piccolo, ma significativo escluso è Taiwan[2]). Inoltre, in un’ottica di decoupling, questo accordo potrebbe aiutare Pechino a ridurre la sua dipendenza dai mercati e dalla tecnologia europea e statunitense. E infatti è proprio questo il nodo sottolineato dalla maggior parte degli analisti. Da quando nel 2017 il presidente Donald Trump si è sfilato dal Trans-Pacific Partnership voluto dall’amministrazione Obama, il peso degli Stati Uniti nell’area è diminuito a favore della Repubblica popolare cinese che, per giunta, è sempre più assertiva sulle isole contese del Mar cinese meridionale e orientale. E anche se il neopresidente americano Joe Biden volesse in qualche modo ricucire lo strappo con la Cina, tutto fa pensare che sarà un ammorbidimento nella forma e nei modi più che nei contenuti di nuovi accordi commerciali[3].

 

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