China Watching

25/03/2020 Cecilia Attanasio Ghezzi

La diplomazia delle mascherine

La Cina sta riconvertendo parte della sua economia alla produzione di mascherine, passate in un mese da 20 a 116 milioni di pezzi al giorno. Un business che potrà avere effetti destabilizzanti sugli equilibri geopolitici. Intanto il Partito prepara una contronarrazione sull’origine non endogena del coronavirus

La chiamano già la «diplomazia delle mascherine»[1]. Commerciare dispositivi sanitari ai tempi della Covid-19 è altamente remunerativo e la Cina sta riconvertendo l’economia. In un mese è passata da 20 a 116 milioni di mascherine al giorno. E ancora non bastano. Al nuovo business partecipano sia le aziende di Stato sia che le piccole fabbriche, incentivate da sussidi come riduzione delle tasse, prestiti senza interessi e vie preferenziali per ottenere i documenti e nulla osta necessari. Risultato?

Sinopec, che potremmo definire una multinazionale di Stato nel campo della pertrolchimica, ha inaugurato due linee di produzione per la fabbricazione dei tessuti filtranti adatti alle mascherine[2]. Entro la metà di aprile ne aprirà altre otto, e arriverà a immettere ogni giorno sul mercato il materiale necessario a comporre 18 milioni di mascherine chirurgiche e 3,6 milioni di quelle ultra filtranti note con la sigla Ffp3. Materiale che verrà usato principalmente in Cina, dove sono già 2500 le fabbriche riconvertite, compresa quelle della taiwanese Foxconn fin’ora note per realizzare componentistica elettronica per grandi marchi come Apple, Motorola o Xiaomi[3].

La forza di un’economia pianificata si vede qui, e rischia di minare ulteriormente gli equilibri già incerti dell’attuale geopolitica. Mentre diversi Paesi proibiscono l’esportazione di questi dispositivi medici così preziosi in tempi di pandemia, la Cina, che ha ormai superato il picco di contagi, si propone come fornitrice e giudice, tanto che è lo stesso ministro degli esteri Wang Yi ad assicurare all’Italia la precedenza nella stipula dei contratti e nelle forniture rispetto ad altri Paesi europei.

Quello stesso ministro che, non più di due settimane fa, ha firmato un lungo saggio in cui ha descritto l’epidemia come una «sfida non tradizionale alla sicurezza» invocando una «nuova cooperazione internazionale» in quella che ha definito «la via della seta sanitaria»[4]. L’articolo è stato pubblicato da Qiushi (letteralmente: Cercando la verità), la rivista quindicinale su cui i più alti quadri del Partito comunista cinese si confrontano su teorie politiche e di governo.

E infatti anche il presidente Xi Jinping ha esplicitamente dichiarato che gli sforzi fatti dalla Cina per fermare il virus non solo sono serviti a proteggere la salute pubblica nazionale, ma saranno anche un contributo allo sviluppo di quella globale. La propaganda, gli americani la chiamerebbero soft power, è già in azione. Più cresce il numero di contagi nel mondo, più il modello cinese diventa forte. Tanto da farci dimenticare il colpevole ritardo con cui Pechino ha affrontato la comparsa del nuovo virus.

Il primo caso noto di Covid-19 si farebbe infatti risalire al 17 novembre 2019, il Comitato permanente del Politburo ne avrebbe discusso il 7 gennaio scorso, ma la popolazione venne informata solo il 21 gennaio, due giorni prima che una regione di 60 milioni di abitanti venisse messa in quarantena. La Cina sta riscrivendo questi passaggi. Già il 27 febbraio, il medico Zhong Nanshan affermava in conferenza stampa che, seppure questo virus è apparso a Wuhan, «potrebbe non essere originario della Cina»[5].

Zhong, 83 anni, è l’epidemiologo che ha scoperto il coronavirus della Sars e a cui il Partito ha affidato la risposta scientifica a questa nuova epidemia. La sua è una presa di posizione da cui è poi scaturita la nuova narrazione poi diventata ufficiale. Lo ha specificato un comunicato ufficiale del ministero degli affari esteri lo scorso 4 marzo[6] e un diplomatico si è spinto addirittura oltre: non potrebbe essere stato l’esercito Usa ad aver portato l’epidemia a Wuhan?[7]



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