E&M

1996/6

Claudio Dematté

Il Mezzogiorno in trappola: come uscirne

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Il Mezzogiorno in trappola

Gli imprenditori e i dirigenti hanno un mandato precipuo: quello di gestire le loro aziende al meglio, assicurando ad esse la massima prosperità possibile. Per realizzare questo obiettivo essi devono impostare e realizzare le scelte che consentano di conquistare i clienti, di massimizzare il valore aggiunto e di distribuirlo in maniera tale da conservare la capacità di attrazione nei confronti dei fattori della produzione, in particolare di quelli più critici. Altri obiettivi, come quello dell’occupazione, non sono di loro competenza, ma semmai sono l’effetto indotto delle loro strategie di sviluppo. Nella migliore delle ipotesi possono integrare nel loro panorama la difesa dei posti di lavoro della propria impresa, sempre che questo non metta a repentaglio l’equilibrio economico e finanziario di fondo.

Secondo questo schema concettuale – impeccabile in un’economia di mercato – il management vive il problema della disoccupazione come qualsiasi altro cittadino: come un problema esterno, a carico della società nel suo insieme. A dire il vero, per loro non è del tutto esterno, perché la carenza di occupazione ha effetti indotti negativi sui redditi e sulla domanda: ma a fronte di questa controindicazione i dirigenti, presi singolarmente, non hanno alternativa che quella di auspicare o di fare lobby per una diversa politica economica. Il che è precisamente quanto ha cercato di fare proprio recentemente Romiti quando, di fronte ai rischi di una recessione causata dai duri interventi per risanare la finanza pubblica, ha proposto una reinterpretazione dei criteri di Maastricht. Proposta rifiutata nella forma, ma poi applicata sia in Italia sia in altri Paesi, come la Francia, accettando per buone nella formazione della Finanziaria mere manovre di tesoreria.

Diversa è la posizione di quei dirigenti che nell’ambito della pubblica amministrazione sono preposti proprio al compito di combattere la disoccupazione, nell’ambito di ministeri, in seno agli enti locali o nelle agenzie di sviluppo, come quelle per la promozione delle nuove imprese, oppure quelle incaricate di gestire i “parchi tecnologici” oppure gli “enti di promozione imprenditoriale”, quali, i Business Innovation Centres (BIC). Per costoro l’aumento dell’occupazione è l’obiettivo primario. Ma, quasi per paradosso, essi non possono realizzarlo direttamente, bensì solo per via mediata e grazie all’eventuale nascita e allo sviluppo delle imprese che, come si è detto, non hanno in sé e per sé come obiettivo primario l’occupazione, ma solo la preservazione delle proprie condizioni di sopravvivenza.

Molti dirigenti di queste agenzie, anche se dotati di professionalità, sono cresciuti in contesti organizzativi da pubblica amministrazione, sottratti alle tensioni dei mercati. Eppure le attività che essi dovrebbero promuovere, affinché si sviluppi una occupazione duratura ed autentica (cioè capace di produrre un valore aggiunto almeno uguale al salario), sono proprio quelle che devono passare al vaglio del mercato. Come si raccorda questa cultura, talvolta anche solida, da pubblica amministrazione, dei dirigenti delle agenzie con quella di impresa che dovrebbe invece improntare i loro assistiti? Il problema diventa ancora più grande quando si tratta di promuovere occupazione non per riconversione di attività in aree a lunga tradizione industriale e di mercato, ma in zone dove la cultura di impresa, oltre a non esservi nella pubblica amministrazione, è scarsa anche nel contesto privatistico per l’assenza o la scarsità di esperienze di impresa dovuta alla mancata industrializzazione.

In questo caso, entrambi soggetti del processo sono deboli proprio in quella risorsa che è la materia prima per l’attività presa. Ma allora come si possono promuovere aziende competitive se mancano da un lato e dall’altro sia le abitudini sia le competenze per fare impresa? Con una metafora calcistica, la situazione che si prospetta è simile a quella che si troverebbe di fronte uno che, avendo poca esperienza di calcio, debba favorire la formazione di squadre per campionati impegnativi in ambienti dove il calcio non è molto praticato. Se questo è il problema, possono i dirigenti delle imprese chiamarsi fuori rispetto al problema della disoccupazione, in virtù del principio che il loro mandato non è creare posti di lavoro e meno che meno creare nuove imprese, ma solo quello di fare progredire le organizzazioni loro affidate? Oppure rischiano di operare in un ambiente degradato con redditi in calo, paura per il futuro e condizioni di domanda sempre meno favorevoli?

Se poi la disoccupazione si manifesta in modo più netto in certe parti del Paese, possono le imprese e i dirigenti che operano nell’altra parte disinteressarsi del problema e rimanere insensibili alle tensioni geografiche che ne derivano?

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