Interventi & Interviste
Tracciabilità: non solo etica, ma business
Intervista a Stefano Pogutz
Per prima cosa, che cosa si intende esattamente quando si parla di tracciabilità della supply chain?
Il tema della tracciabilità riguarda anzitutto la trasparenza dei processi produttivi lungo l’intera catena del valore. È una questione particolarmente rilevante in quei settori che sono caratterizzati dalla presenza di filiere globali, come il fashion, l’alimentare e l’ICT. Si tratta di industrie che coinvolgono una grande varietà di attori dislocati in diversi paesi: questo ha profonde implicazioni a livello ambientale, sociale e sul piano della sicurezza dei prodotti. Non si tratta soltanto di accertare esattamente la provenienza delle materie prime, o la correttezza (non solo qualitativa, ma anche sul piano etico) dei processi di lavorazione: in alcuni casi (penso per esempio ai prodotti hi-tech) è importante anche garantire la tracciabilità a valle, dello smaltimento e del riciclo dei rifiuti e dei prodotti obsoleti.
Se questo è il quadro generale, perché garantire la tracciabilità della propria supply chain diventa importante a livello aziendale?
La questione della tracciabilità delle risorse impiegate e dei diversi processi di lavorazione è strettamente collegata a quella della responsabilità sociale di impresa: in altre parole, alle implicazioni etico-morali delle attività aziendali. Bisogna poi tenere presenti le pressioni esterne, prima di tutto da parte dei consumatori, che manifestano un crescente desiderio di chiarezza riguardo alla provenienza delle materie prime utilizzate. Questo è particolarmente vero nell’ambito del fashion e in quello alimentare, ma il tema inizia a prendere campo anche in ambito ICT: penso al caso di Fairphone, un’azienda olandese che produce telefoni cellulari con una filiera pienamente tracciabile. A ciò si aggiungono le azioni delle ong, che cercano di sensibilizzare al tema e di favorire l’introduzione sia di leggi da parte dei governi, sia di sistemi di autoregolamentazione e di standard di carattere sovranazionale. Infine, la tracciabilità oggi si intreccia alla competitività aziendale: avere una filiera trasparente, certificata, può diventare un fattore di parità competitiva, o addirittura, in certi casi, un fattore differenziale per il posizionamento a livello di brand (come, appunto, nel caso di Fairphone).
Da un punto di vista operativo, quali sono gli strumenti attraverso cui un’azienda può assicurare la tracciabilità della propria supply chain?
È necessario introdurre strumenti ad hoc, sia sul piano tecnologico sia su quello manageriale. Per quel che riguarda il primo aspetto, oggi sono disponibili tracking device che consentono di tracciare, tramite codifica, il percorso seguito dalle materie prime lungo tutta la filiera. Sul piano manageriale, diventa centrale individuare e rispettare quegli standard che consentiranno all’azienda di conseguire certificazioni legate alla provenienza delle materie prime. Per fare un esempio, in ambito alimentare diventa così possibile sapere esattamente da quale piantagione proviene un determinato lotto di caffè, sulla base di quali contratti di lavoro e di fornitura è stato prodotto, qual è stato l’impatto a livello ambientale della produzione e così via. Da questo punto di vista, è importante che le aziende si rivolgano ad attori specializzati in grado di affiancarle e supportarle nei percorsi di certificazione.
A proposito di certificazione: come viene declinato il tema della tracciabilità sul piano della regolamentazione, e quali sono gli attori coinvolti?
Oggi la distinzione fondamentale è quella tra le autoregolamentazioni (soft laws) e le legislazioni top down nazionali; a metà strada si collocano gli accordi e le convenzioni di carattere internazionale. La complessità delle filiere globali rende in realtà molto difficile applicare approcci di tipo top down, anche a causa delle diversità culturali e sociali dei vari contesti nazionali interessati. Per questo assume sempre più importanza la definizione di standard condivisi di carattere internazionale con un approccio bottom-up, coinvolgendo i diversi stakeholder coinvolti. L’obiettivo deve essere quello di arrivare a un accordo tra le diverse parti, che porti a definire un set di procedure omogenee, di standard funzionali a garantire la trasparenza delle supply chain.
In Italia sono presenti da molti anni istituzioni che si occupano di tracciabilità e sono stati introdotti standard ben precisi, come lo standard di gestione ambientale ISO 14001. La gamma sempre più ampia di aspetti da considerare, da quelli ambientali a quelli relativi alla provenienza delle materie prime, fa sì che questo sia un settore in espansione, con un crescente livello di specializzazione: penso al caso di consorzi come Fair Trade o di ong come Rainforest Alliance. Ovviamente, è fondamentale che i processi di certificazione e autoregolamentazione siano credibili: in questo senso, un ruolo importante può essere svolto dalla tecnologia, che consente di processare una mole crescente di dati e di andare a individuare più rapidamente le eventuali criticità presenti.
Al di là della compliance, in che modo è possibile comunicare in modo efficace al consumatore gli sforzi compiuti a livello aziendale su questo terreno?
La grande sfida è quella di trasferire al consumatore in maniera semplice e immediata un insieme di informazioni che è di fatto estremamente dettagliato e complesso: la parola d’ordine è semplificare la complessità, per dare al consumatore in maniera immediata quelle informazioni che sono rilevanti per la sua scelta di acquisto. Da questo punto di vista, l’uso di QR codes in grado di fornire informazioni sulla tracciabilità dei prodotti, o di apposite label che attestino le certificazioni conseguite dal prodotto, sono estremamente utili. Una comunicazione efficace su questi temi può contribuire a far sì che la trasparenza e la tracciabilità non solo siano coerenti, ma anzi diventino parte integrante dell’identità del brand.
(lg)