Interventi & Interviste
È l’ora del legal coaching
Come è il mercato degli studi legali in Italia?
Inutile girarci attorno, è una situazione di crisi. E gli avvocati di affari non fanno eccezione. Il vero boom c’è stato negli anni Novanta, per tre fattori principali. Prima di tutto gli investimenti stranieri nell’M&A, allora soprattutto americani, che hanno portato con sé strutture e modelli contrattuali complessi. In secondo luogo, la globalizzazione della finanza. La finanza globale si è molto trasformata in questi vent’anni, modificando drasticamente il business con i modelli internazionali e quindi la complessità del confronto con gli stranieri. Un buon esempio sono i contratti, passati da 20 a 120 pagine in media. In terzo luogo, lo sbarco in Italia dei grandi studi internazionali. In parallelo gli studi legali associati - nel 1994, per dire, gli studi associati di oltre 50 avvocati erano pochissimi – hanno iniziato a confrontarsi con gli studi internazionali. Crescevano i soci, spesso giovani, cresceva l’EBITDA. Finché non è avvenuta la minicrisi del 2001.
La prima crisi delle start-up digitali, anche se ancora non si chiamavano così.
Esatto. Una crisi significativa ma settoriale, che in fondo non durò molto. Le società ripresero a quotarsi, il numero e la complessità delle operazioni continuarono a crescere, spinte anche dalla grande liquidità sul mercato, finché ci fu la nuova crisi, nel 2007. Quello fu un momento diverso, un vero crollo. Da allora, la situazione è molto cambiata: ci sono meno operazioni e in generale una maggior attenzione ai costi, fattori che portano a una forte competizione sui prezzi, a discapito a volte della qualità.
Ma la crisi è anche un’opportunità oppure questo slogan è solo retorica?
Al contrario, non è retorica. Linklaters nasce qui, dalla crisi. Siamo stati fortunati: iniziando l’attività nel 2007 abbiamo potuto impostare un modello con strutture leggere e flessibili, ideale per rispondere velocemente ai cambiamenti del mercato. Poi abbiamo lavorato nella strategia di posizionamento e quindi di comunicazione. Abbiamo individuato una fascia alta di mercato, che ha un valore aggiunto e a cui puoi dare servizi di valore aggiunto, che cambia negli anni. Ovviamente occorre saperlo comunicare. Per questo la comunicazione è per noi fondamentale.
Come le appare lo scenario economico finanziario dal suo punto di osservazione?
Oggi devi andare dal cliente. Devi dare un servizio di consulenza vera, non solo tecnico-legale, ma anche fiduciaria e creativa, soprattutto anzi. Oggi devi portare il cliente a ottenere il risultato desiderato ma in una maniera corretta e attuale, legata alle dinamiche del mercato. Occorre quindi un’esperienza di mercato ma soprattutto occorre un atteggiamento di gravitas, come dicevano i latini, cioè di attendibilità e creazione fiducia. La gestione di questi aspetti non è facile, mi creda.
Non ho difficoltà. Devi essere una sorta di coach...
Potrebbe essere una buona definizione. Legal coaching.
Quali sono le priorità dell’agenda legale in Italia?
Direi che per quanto riguarda gli studi legali si sta superando la contrapposizione tra riforma della giurisdizione e paese reale. E questo è un grande cambiamento, un’importante mutazione in positivo.
È una metamorfosi lenta, si scontra con l’inevitabile corporativismo, ma va avanti. E il settore dove si nota di più è quello finanziario.
E la vicenda dei salvataggi delle banche locali?
È un complesso di cose, di fatti e di ragioni. Da un lato un sistema immobile, con governance afflitte da scarso ricambio generazionale. è il tema del salotto buono, insomma, della finanza italiana concepita e realizzata a club, che poi esistono anche altrove ma sono molto diversi. Perché da quando si sono aperti i mercati, e la finanza locale si confronta con quella globale, il primo effetto è vedere che i club non funzionano a livello internazionale. Poi c’è il tema delle funzioni di controllo, che dipendono non solo «dall’omesso controllo», come si dice a livello giornalistico, ma anche da un’inadeguatezza normativa. Un esempio per tutti: si recalcitra ad accettare la regolamentazione europea, che invece dovrebbe almeno in questi settori essere benvenuta. E poi c’è il tema del controllo superiore, che è certo quello di Bankitalia ma anche di altre forme: come gli azionisti, che spesso sono impuri perché si confondono con il management.
A proposito di controlli. Parliamo di Brexit.
Volentieri, anche se è difficile dire qualcosa di significativo. Noi ci abbiamo provato a luglio, siamo stati i primi a organizzare un convegno di studio qui da noi. Per me siamo in classico trend altalenante, una definizione che si usa osservando che il mercato è incerto, sale e scende: insomma per prendere tempo. Ecco, ci vorrà tempo. In ogni caso da settembre gli operatori si sono mossi per riassettare lo choc. Resta un momento di incertezza, ma sarà qualcosa che inevitabilmente si capirà nel tempo. Questo sui mercati fuori dall’Inghilterra. Molto diverso invece è cosa accade in Inghilterra: io sono certo che si votasse nuovamente la maggioranza voterebbe per rientrare.
Dove vede i nuovi mercati emergenti?
Non a Est, ma a Sud.
Prospettiva originale.
Ci pensi. L’Asia è stabilizzata, mentre molto interessante e in piena espansione è l’Africa, che non conosciamo quasi per niente al di là degli stereotipi. E questo come Europei ci dovrebbe far riflettere. In Africa sono entrati i Cinesi e i Russi mentre l’Europa è ancora timida, sulla scorta forse di un complesso coloniale, di un complesso di colpa in questo caso malriposto. Un vero peccato, non solo per la vicinanza geografica, ma anche culturale. Inoltre, così facendo si lascia spazio ai Cinesi, che hanno un approccio economico molto aggressivo in Africa. Noi per esempio abbiamo un’alleanza con uno studio sudafricano, ma il paese forse più interessante mi sembra la Nigeria, dove ci sono forti investimenti su tutto, dalle infrastrutture alle materie prime fino ai servizi, compresi quelli finanziari. Questo è un aspetto sempre marginalizzato e invece di estrema importanza: sta nascendo una classe media, in alcuni paesi si sta molto rafforzando, e quindi dopo le infrastrutture, di cui tutti parlano, c’è domanda di utilities, di consumi, finanziari e culturali.
Ma questa difficoltà a comprendere le opportunità all’estero non sarà legata alla composizione delle realtà italiane, alla loro storica impasse oltre confine?
Senza dubbio. Il tema è culturale, come dicevo, ma anche strategico.
Come lo definirebbe?
In una sola parola, dimensione. Altrimenti direi che le aziende italiane che vanno all’estero in realtà sono poche e soprattutto sono i soliti noti. Perché andare all’estero non è delocalizzare in Romania o in Vietnam, purtroppo. Il tema dimensionale porta con sé quello degli investimenti, ovvero dell’accesso alla liquidità, un capitolo annoso e triste nel nostro paese. Infine, c’è la scarsa capacità italiana di fare sistema, che non è uno slogan al contrario ma purtroppo una realtà di fatto. Anche se prende il lusso, uno dei nostri settori più dinamici e vincenti, non esiste nulla come un’idea paragonabile, che so, a LVMH.
Perché succede così?
Le ragioni sono molte ma qualunque sia il contesto di origine del problema resta il fatto che questo rende difficile andare all’estero e imporsi. Se vuole, torniamo sempre al tema della personalizzazione, che è figlio dell’individualismo. Noi abbiamo grandi, eccellenti individualità di imprenditori e creativi, ma che per una condizione o fatalità rimangono nell’ambito delle imprese familiari; e quando finisce la dinastia, la risposta non è quasi mai l’aggregazione, piuttosto la cessione all’estero e al private equity.
Addirittura? E come uscirne?
Se posso sintetizzare con un auspicio vorrei dire che il modello Fiat andrebbe applicato alle piccole e medie imprese, cosa quantomeno difficile vista la difficoltà cronica di superare le barriere all’aggregazione, spesso frutto di personalità o personalizzazioni.
Perché un cliente dovrebbe scegliere Linklaters?
Diciamo che noi di questo studio abbiamo molto chiara non dico la visione della realtà ma di certo quella della nostra realtà.
Come la descriverebbe sinteticamente?
Noi viviamo in un regime di disciplina finanziaria per cui se le cose non girano in alto non funzionano. Per questo ci siamo specializzati nella fascia alta, e non nelle commodity.
Una scelta di campo netta.
Nettissima. Per questo ci occupiamo di strutturare e gestire prodotti complessi e innovativi. E sempre per questo, in un’altra linea di business, interveniamo in situazioni molto complesse, basandoci su rapporti davvero fiduciari. Attenzione: questo modello non va confuso con il modello one stop shop: noi non siamo uno studio che fa tutto, non perché non potremmo ma perché non vogliamo, perché la nostra gestione caratteristica, usando una metafora, si è specializzata in una consulenza di alto livello su certe tipologie di operazioni e di prodotti, per cui se un cliente deve fare un’operazione di un certo tipo per cui i migliori sono altri, noi siamo i primi a suggerirlo.
Fair play o cosa?
Business, che può essere solo fair. Noi supportiamo la strategia del cliente, ragionando come se fossimo lui e insieme a lui nelle scelte.
Se dovesse dare consigli a un giovane che voglia fare l’avvocato e teme di fare solo fotocopie…
Dieci anni fa gli avrei detto: fai un’esperienza all’estero. Oggi gli dico: stai dove vuoi, ma cerca di crescere come un avvocato internazionale. Fai quello che per anni hanno fatto Inglesi e Americani. Formati bene in Italia, con una dimensione internazionale. Per questo ci sono studi sia internazionali sia italiani ottimi. Acquisire una mentalità globale, forse questa è la formula per una professione che ormai deve dare advice legale in tutto il mondo.
Quali sono i suoi progetti per il futuro, personali e professionali?
Molti e vari. Il più importante però è fare quello che in Italia non si è mai fatto in uno studio legale, ovvero mettere l’accento su diversity, work-life balance, training olistico. Voglio continuare insomma a creare un luogo di lavoro sereno, che risponda alle esigenze degli asset, che sono, ovviamente, i talenti che ci lavorano. Sono convinto che sia un boost, un acceleratore di business, quindi un obiettivo personale che diventa anche professionale.
Su questa prospettiva ci sono molte voci contrarie nel mercato…
Le sento spesso, ma venendo la mattina in ufficio mi rispondo. «Se lo fa Coca-Cola, Luxottica, Bottega Veneta o Google sarà davvero così sbagliato?»
(Andrea Arosio è Managing Partner di Linklaters Italia)