Interventi & Interviste

04/02/2022 Roberto Ruozi

Passato, presente e futuro delle concentrazioni bancarie

In Italia si cominciò a parlare, e a operare in tal senso, di concentrazione bancaria verso la fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Gli obiettivi erano due: salvare le banche in difficoltà e favorire la realizzazione di economie di scala. Successivamente, un forte impulso alla concentrazione si ebbe con la privatizzazione delle banche pubbliche. Tuttavia, queste operazioni non riescono a migliorare la redditività degli istituti bancari, e questo si traduce in una quotazione in Borsa a prezzi inferiori al valore del loro patrimonio netto contabile. Un problema che oggi non sembra trovare soluzione né adottando una concentrazione transfrontaliera né una di tipo domestico

Il fenomeno della concentrazione bancaria si presta, come ho già varie volte avuto modo di dire anche con riferimento ad altre tipologie di operazioni finanziarie, a giudizi non univoci sia in relazione al suo valore intrinseco formale sia alla sua applicazione pratica.

In effetti gli obiettivi e i risultati della concentrazione bancaria, fenomeno che ha largamente interessato quasi tutti i Paesi del mondo nel Secondo dopoguerra, sono cambiati nel corso del tempo e le valutazioni che si sono espresse su di essi nelle varie epoche sono state condizionate dal contesto storico di riferimento.

Nel nostro Paese si cominciò a parlare seriamente (e a fare altrettanto seriamente) di concentrazione bancaria verso la fine degli anni Sessanta del secolo scorso, e gli obiettivi furono essenzialmente due: salvare le banche in difficoltà evitandone il fallimento mediante l’accorpamento con banche sane e favorire la realizzazione di economie di scala. Successivamente, un forte impulso alla concentrazione si ebbe con la privatizzazione delle banche pubbliche e, in particolare, con l’attuazione della cosiddetta «legge Amato» sulla trasformazione di tali banche in società per azioni, divenute proprietà delle fondazioni di origine bancaria le quali dovettero poi cedere a terzi la maggioranza delle loro partecipazioni. In quel periodo il problema dei salvataggi bancari fu meno impellente rispetto al passato, mentre l’obiettivo prioritario rimaneva quello di realizzare economie di scala risolvendo al contempo i problemi di governance del sistema bancario italiano.

Le verifiche empiriche e l’esperienza sul campo cominciarono tuttavia a dimostrare che la realizzazione di tali economie non era scontata e che oltre dimensioni di un certo livello – raggiunte anche con operazioni di fusione, incorporazione o acquisto – le economie di scala avrebbero potuto trasformarsi addirittura in diseconomie. Sempre con riferimento al nostro Paese, quel livello sembrava in verità ancora lontano e così la concentrazione proseguì, anche se con ritmi meno intensi rispetto al passato, sino a giungere al periodo della grande crisi del 2007-2008 quando molte regole economiche non funzionarono più neppure in banca e la stessa concentrazione assunse aspetti sempre più complessi. Nel frattempo i mutamenti della domanda dei consumatori, specie in materia di prodotti e servizi di investimento e gestione del risparmio, quelli dell’attività degli intermediari non bancari e dei mercati finanziari, gli impulsi della concorrenza e la rivoluzione tecnologica, insieme con i sempre più rigidi interventi delle autorità di vigilanza e la sempre maggiore internazionalizzazione dell’attività bancaria hanno contribuito a far emergere detta concentrazione con occhi relativamente nuovi.

Oggi questa si manifesta in sistemi bancari più snelli, più competitivi, più avanzati tecnologicamente, con un maggiore e più consapevole approccio alla governance delle singole banche e via dicendo, ma questo non riesce sempre a migliorarne la redditività: ciò si traduce in una quotazione in Borsa a prezzi inferiori al valore del loro patrimonio netto contabile. Sullo sfondo vi è poi stato il passaggio di consegne per le banche sistemiche – più interessate al fenomeno della concentrazione – dalla Banca d’Italia alla BCE, che ha prodotto una moltiplicazione di norme che hanno effetti diversi nei singoli Paesi dell’Unione Europea e sulle singole loro banche, creando difficoltà e paradossi problematici e soprattutto costosi da superare. La mancata realizzazione di un vero mercato bancario unico europeo che tenesse conto delle diversità nazionali e di quelle delle varie categorie di banche, contribuisce a creare una certa confusione nei sistemi bancari europei. I problemi italiani sono peraltro molto simili a quelli degli altri Paesi dell’Unione, che a loro volta non sono molto diversi da quelli degli Stati Uniti d’America.

In questo contesto come può essere visto un ulteriore sviluppo della concentrazione dei suddetti sistemi? Dal punto di vista delle autorità di vigilanza sembra che sia necessario proseguire senza particolari problemi. La ricerca di maggiori economie di scala e quindi – a parità di altre condizioni – di una maggiore redditività sembra l’obiettivo prioritario da perseguire. Sul tipo di concentrazione utile per raggiungere tale scopo le idee sono tuttavia confuse. La situazione in effetti è diversa, per esempio, se si mira a una concentrazione transfrontaliera o a una di tipo domestico.

Quanto a quest’ultima, penso che qualcosa di nuovo si possa fare anche in Italia, ma ricordo che l’ottenimento di economie di scala è sempre più difficile e soprattutto che eliminare le banche piccole e minori, andando ad aumentare seppure non di molto le dimensioni di quelle più grandi, potrebbe essere fortemente dannoso per l’efficienza del sistema. In particolare, una maggiore concentrazione, ai livelli ai quali è già arrivata, rischia di incidere negativamente sul grado di concorrenza nel mercato e di rendere più difficile la mobilità dei clienti da una banca all’altra.

Il problema è serio anche perché, almeno in Italia, dove peraltro si ha una situazione nel principio assai simile a quella dei già citati Stati Uniti d’America, le banche piccole e minori (così come definite da Banca d’Italia e aventi quindi fondi intermediati non superiori a 9 miliardi di euro) rappresentano ancora il 91 per cento circa del numero totale delle banche italiane e detengono quasi il 26 per cento degli sportelli, circa il 20 per cento dei lavoratori bancari, più del 16 per cento dei depositi e quasi il 16 per cento dei prestiti. Si consideri del resto che le due categorie di banche citate stanno svolgendo funzioni sempre più diverse fra loro e che i segmenti di mercato che interessano alle une sono sempre meno appetiti alle altre. Questo è vero anche per le localizzazioni dei relativi sportelli che interessano aree con caratteristiche diversamente interessanti per i due tipi di banche. L’assorbimento di quelle piccole e minori da parte delle banche più grandi potrebbe quindi non migliorare la redditività di queste ultime e peggiorare l’efficienza dei sistemi.

Quanto invece al problema della concentrazione transfrontaliera le cose sono ancora più complicate. Gli obiettivi dei principali gruppi bancari dei Paesi europei al proposito non sono ancora chiari e la mancanza di un sistema bancario unico renderebbe problematico l’esercizio, all’interno di una stessa banca transfrontaliera, di attività regolate in modo diverso da un Paese all’altro. Ciò nonostante alcuni dei gruppi suddetti ci stanno pensando, ma i tempi non sono ancora maturi per prendere decisioni definitive. Prima di affrontare avventure incerte e potenzialmente pericolose, i cui riflessi positivi sui territori in cui si troverebbero a operare non sono per nulla scontati, sarebbe bene che aspettassero di avere situazioni economiche e patrimoniali migliori e obiettivi strategici più solidi.

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