Interventi & Interviste
Così a Roma può nascere la prima food policy dal basso
Oggi, secondo le Nazioni Unite, il 55% della popolazione mondiale vive in ambienti urbani[1], la tendenza globale è in costante crescita e le proiezioni indicano che entro il 2050 questo numero salirà al 68%. Nel nostro Paese questa soglia è stata superata già nel 2018 e oggi più del 70% degli italiani vive in contesti urbanizzati. Per questo, nella prospettiva in cui la domanda di cibo nelle città sarà sempre maggiore, è divenuto fondamentale pianificare lo sviluppo ecologico dei sistemi alimentari urbani.
Questa necessità trova le sue ragioni nei dati pubblicati nel 2019 dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), secondo cui il sistema alimentare globale contribuisce fino al 37% delle emissioni di gas climalteranti prodotti dall’uomo. Nel computo rientrano le attività preliminari alla coltivazione (deforestazione e cambio di uso dei suoli), quelle più tipicamente agricole e il percorso del cibo a valle dell’azienda, dalla trasformazione alla distribuzione, fino al consumo e allo smaltimento. Ripensare l’agricoltura e l’intera struttura delle filiere alimentari è dunque una delle più ambiziose sfide per centrare una pletora di obiettivi, dai Sustainable Development Goals a quelli sul clima contenuti nell’Accordo di Parigi.
Qual è la condizione di partenza? Secondo gli ultimi dati disponibili, a livello globale il 35% della produzione di cibo è garantita da aziende sotto i due ettari, che rappresentano l’84% delle 608 milioni di aziende censite e operano su appena il 12% della superficie agricola[2]. Questi numeri raccontano che il contributo dell’agricoltura contadina, più biodiversa e sostenibile – perché diversifica la produzione, fa scarso uso di input di sintesi e meccanizzazione ed è orientata al mercato locale – è quindi ancora molto significativo. Tuttavia, questo modello soffre la pressione di un’agroindustria in crescita, che opera sul mercato internazionale. La capacità di fare economia di scala favorita dalla rivoluzione verde ha spinto infatti ad aumentare le rese e la standardizzazione dei prodotti, in modo da servire con maggiore efficienza l’industria di trasformazione e un sistema commerciale e di distribuzione governato da pochi grandi player[3]. La crescente dimensione aziendale è una conseguenza di questo trend, ed è positivamente correlata con la crescita delle economie. L’1% delle aziende agricole globali, cioè quelle che superano i 50 ettari di superficie, gestisce oggi più del 70% dei terreni arabili.
Anche in Europa sperimentiamo la stessa tendenza. Nel vecchio continente, tra il 2005 e il 2016, quattro milioni di aziende agricole hanno chiuso (siamo passati da 14,5 a circa 10 milioni): in pratica, circa mille agricoltori al giorno sono usciti dal mercato. Tuttavia, la superficie agricola coltivata è rimasta invariata, il che suggerisce l’espansione delle aziende di medio-grandi dimensioni sui terreni di chi è finito stritolato nella morsa della competizione. Il declino coinvolge anche il settore primario italiano: nel periodo oggetto di indagine, il nostro Paese ha perso 320 mila aziende agricole, che ora – in attesa del prossimo censimento Istat – si attestano appena sopra il milione[4].
Ci troviamo oggi a un punto di svolta, che vede un’agricoltura di piccola scala biodiversa ed ecologica arretrare costantemente di fronte all’incedere dell’agroindustria, la quale porta con sé una maggiore capacità di servire le mutate abitudini di consumo, ma genera al contempo significativi impatti climatico-ambientali, riduce il numero di occupati e contribuisce allo spopolamento delle aree rurali.
In modo simmetrico, notiamo che a valle della filiera cresce la concentrazione della popolazione nei grandi centri urbani e di conseguenza aumentano le persone collegate a filiere meno sostenibili, con chiare ripercussioni sul diritto di accesso al cibo e la povertà alimentare.
In questo quadro, le istituzioni sono chiamate a mettere in campo politiche alimentari integrate, capaci di garantire l’equo accesso a un cibo sano e sostenibile, di sostenere lo sviluppo rurale e le filiere locali e di incentivare l’agroecologia e il lavoro agricolo di qualità. Intervenire sui sistemi alimentari urbani permette di promuovere la sicurezza alimentare, valorizzare le attività agricole di prossimità e i rapporti tra città e campagna, contrastare il fenomeno del consumo di suolo e lo spopolamento delle aree rurali.
Che cosa sono le politiche del cibo e perché sono importanti
Le food policies entrano in gioco per affrontare questa molteplicità di problemi intrecciati, e costruire una risposta a partire dal livello locale. Naturalmente, si tratta di una parte della soluzione, che si inscrive in una emergente e più generale narrativa[5] – accelerata dalla pandemia – che promuove la necessità di diversificare la produzione (non solo agricola) e rafforzare il mercato interno[6].
L’espressione food policies, che è possibile tradurre in italiano come politica alimentare o politica del cibo, indica l’insieme delle strategie e degli strumenti che le istituzioni possono adottare per intervenire sui sistemi alimentari locali, dai processi di produzione alla trasformazione, distribuzione, consumo e smaltimento del cibo, con l’intento di garantire la salute delle persone e dell’ambiente, favorire l’occupazione e promuovere l’innovazione.
Tutte le definizioni di food policies utilizzate a livello internazionale fanno riferimento all’obiettivo comune di definire i campi d’azione, gli obiettivi e le procedure necessarie per una progettazione dagli effetti generali e pubblici, mettendo in contatto i diversi stakeholder su questioni relative all’alimentazione.
In tutto il mondo, negli ultimi anni, le istituzioni locali hanno progressivamente compreso le sfide chiave relative ai sistemi alimentari e hanno aumentato il loro impegno nella programmazione in questo ambito. La natura di queste sfide cambia a seconda del contesto di riferimento e la scelta delle priorità e degli obiettivi delle food policies è del tutto politica. Questi percorsi, per quanto differenti tra loro e specifici per ogni territorio, presentano temi comuni.
Per esempio, decine di città nel mondo hanno posto tra gli obiettivi delle proprie politiche alimentari la riduzione degli sprechi e la valorizzazione dei rifiuti organici. Questo è avvenuto principalmente per i Paesi più sviluppati, nei quali lo spreco alimentare è prevalente nelle fasi finali della filiera.
Nelle città nordamericane, invece, si interviene spesso sul tema della salute pubblica con la lotta all’obesità e alle patologie legate alle abitudini alimentari, così come sulle questioni della giustizia e dell’accesso al cibo. Toronto, per esempio, per contrastare la crescita dei food desert, ha favorito lo sviluppo di attività commerciali che vendono a prezzi accessibili cibo sano e di qualità. A tal fine, ha effettuato un rilievo degli spazi commerciali poco utilizzati modificando i regolamenti comunali per consentire la valorizzazione delle aree sottoutilizzate.
Cambiando continente, dunque, cambiano anche le linee di intervento di queste politiche pubbliche. Nelle città dell’America Latina, le food policies sono declinate più esplicitamente in termini di sicurezza alimentare e promozione di sviluppo economico locale, soprattutto attraverso iniziative di sostegno all’agricoltura urbana e familiare. Un esempio viene da Rio de Janeiro dove, dal 2012, una legge garantisce che ogni mercato di produttori dello Stato includa, come minimo, il 10% di agricoltori del comune di Rio. Vendendo principalmente prodotti freschi, il circuito rafforza e favorisce l’agricoltura sostenibile su piccola scala e a basso impatto ambientale in tutto lo stato di Rio, portando cibo sano e locale nell’area urbana, direttamente dall’azienda agricola alla tavola, a prezzi equi e con continuità.
La scelta delle priorità su cui intervenire può essere dettata da fattori intrinseci dei sistemi alimentari locali, o da eventi o fattori esterni. Per esempio, uno studio del 2010 ha dimostrato che, grazie al dibattito pubblico che nel periodo 2008-2010 ha riguardato l’aumento globale del prezzo del cibo, in UK si è arrivati all’adozione di una strategia alimentare nazionale. Questa era orientata principalmente al rafforzamento dell’autosufficienza e della capacità produttiva nazionale (questioni centrali in quel periodo e maggiormente sentite dalla popolazione) e ignorava totalmente altri problemi sistematici come l’obesità infantile o l’insicurezza alimentare nelle città.
Comprendere la complessità delle sfide che riguardano i sistemi alimentari e l’impatto dei cambiamenti climatici sulle filiere è il primo passo per attivare risposte pubbliche. Le food policies rispondono proprio a questa esigenza: esse rappresentano una strategia complessiva che le istituzioni possono mettere in atto per migliorare le connessioni tra le città e le campagne, affrontare le disuguaglianze e sostenere le produzioni agricole virtuose.
Una food policy per Roma, il comune agricolo più grande d’Italia
In Italia, le politiche locali del cibo possono giocare un ruolo di pianificazione economica, inserendosi nel percorso di rilocalizzazione dei sistemi produttivi e dei consumi da più parti invocata in risposta ai ripetuti shock del mercato internazionale. Si tratta quindi di politiche chiave per la transizione ecologica del sistema alimentare, da connettere alle strategie più generali come il Green Deal europeo e la strategia Farm to Fork.
Nonostante il dibattito sulle food policies sia da tempo avviato, e nel nostro Paese abbia visto nascere l’esperienza – ormai sei anni fa – della città di Milano, il tema è rimasto sottotraccia nel dibattito pubblico e politico intorno ai temi dell’agricoltura e dell’agroalimentare. A Roma, per esempio, solo negli ultimi due anni è cresciuta la consapevolezza istituzionale intorno alle politiche del cibo, grazie a un percorso partecipato nato per iniziativa della società civile e sfociato – ad aprile 2021 – nell’approvazione di una delibera del Consiglio comunale che crea i presupposti per una food policy della capitale.
L’esperienza di Roma, pur scontando un forte ritardo rispetto al percorso milanese, che oggi può vantare un profilo internazionale, potrebbe avere a sua volta una eco importante. Per diverse ragioni: la prima, come accennato, è la natura bottom-up del processo che ha portato alla delibera istitutiva della food policy, che la rende un unicum a livello nazionale. Un’altra deriva, più semplicemente, dal contesto sociale, ambientale ed economico che caratterizza la capitale. Roma è infatti il comune agricolo più grande d’Italia e tra i più vasti in Europa, popolato da circa 2000 aziende agricole e con una provincia che ne conta oltre 20.000. Si tratta in gran parte di realtà di piccola scala, a conduzione diretta del coltivatore, a pieno titolo ascrivibili a un sistema di agricoltura familiare ancora prevalente nel nostro paese. Molte praticano la vendita diretta in azienda, poche arrivano a commercializzare invece sul territorio romano, anche avendo a disposizione una straordinaria rete di 144 mercati rionali. Qui, su circa 5000 postazioni, oltre la metà è occupata da operatori dell’agroalimentare, in prevalenza commercianti. Appena un centinaio di agricoltori, secondo i calcoli di Terra!, entrano nei mercati rionali romani, ma il numero potrebbe essere ben superiore[7]. Resta infatti un 20% di banchi vuoti, con licenze scadute da riassegnare. Il declino dei mercati può quindi essere arrestato grazie all’attività del Comune e dei suoi Municipi, che hanno un ruolo chiave nel ripopolare tramite appositi bandi questi spazi alternativi alla grande distribuzione organizzata.
Altri driver di connessione fra agricoltori locali e consumatori nella capitale sono le strutture per la refezione collettiva. Fra queste, è importante citare le mense scolastiche: Roma offre ogni giorno il servizio di ristorazione scolastica a circa 144.000 bambine e bambini delle scuole dell’infanzia, delle scuole primarie e secondarie di primo grado. Questi dati ci dicono che plasmando i capitolati d’appalto in modo che seguano criteri di filiera corta, sostenibilità e stagionalità si possono ottenere importanti ricadute sul tessuto economico urbano, periurbano e rurale. Intervenire con la leva del public procurement su questo comparto potrebbe avere effetti a cascata anche su altre forme di refezione collettiva, come gli approvvigionamenti per il sistema ospedaliero o universitario, le case circondariali o le case famiglia.
Roma è inoltre una città molto viva anche dal punto di vista dei cosiddetti alternative food networks: mercati contadini, gruppi di acquisto solidale (GAS) e sistemi agricoli supportati da comunità. Per esempio, le ultime stime elencano 55 GAS sul territorio comunale, un utile canale alternativo per i piccoli agricoltori locali[8].
Infine, l’ampia superficie di terreni pubblici presenti nella città e nella regione rappresenta un’opportunità straordinaria di attivare politiche per il ricambio generazionale nel settore produttivo, invertendo una tendenza all’invecchiamento dell’agricoltura che affligge tutta Europa. L’accesso alla terra dei giovani è scoraggiato dalla mancanza di capitale, oltre che dalla difficoltà di trovare percorsi di formazione che garantiscano un reale inserimento lavorativo. La gran parte degli under 40 che fanno il loro ingresso nel settore primario è composta da persone con titolo di studio medio-alto e una coscienza ambientale più sviluppata, dimostrata dal fatto che, facendo l’esempio italiano, gestiscono il 38% delle superfici destinate al biologico. L’Italia però soffre più di altri paesi del mancato ricambio generazionale: pur essendo il terzo per numero di aziende agricole nell’UE, per ogni agricoltore sotto i 35 anni ne conta dieci over 65[9]. Considerato che la Regione Lazio detiene l’11% dei terreni pubblici in Italia, la maggior parte dei quali si trovano nella città metropolitana di Roma (26.098 ettari) e nella provincia di Rieti (25.632 ettari), lo spazio per assegnare lotti di terreno a giovani aspiranti agricoltori è davvero ampio.
L’importanza di un processo democratico alla base delle food policies
I processi con cui vengono definite e implementate le food policies possono essere anche molto diversi tra loro a seconda del contesto di riferimento. Come abbiamo visto, questi possono variare in base alle priorità da seguire o all’ampiezza del territorio coinvolto. Anche l’approccio strategico è un fattore di differenziazione: a seconda che sia a trazione istituzionale (top-down) o su spinta dal basso (bottom-up), la politica alimentare urbana può portare a risultati diversi. Nel primo caso, uno degli esempi più studiati a livello internazionale è quello della food policy di Milano, nata nel 2015 in un chiaro contesto di riferimento – quello di EXPO – che ha portato l’allora sindaco Giuliano Pisapia a mettere in piedi una strategia alimentare per la città. A questo fermento del Comune, però, non è corrisposto un coinvolgimento della società civile.
A Roma il percorso è stato differente. Qui, nel 2019 un ampio gruppo di associazioni, agricoltori, ricercatori e cittadini, ha portato avanti un’incessante attività di pressione politica che, il 27 aprile 2021, ha portato all’approvazione della delibera che impegna il Comune a dotarsi di una politica del cibo[10]. Quali vantaggi o svantaggi possono derivare dai due approcci? Da un lato, una iniziativa istituzionale dall’alto può talvolta accelerare il decision-making e mettere in atto progetti concreti in un tempo relativamente contenuto. Dall’altro, la presenza della società civile o dei cittadini organizzati nei processi decisionali (aspetto caldeggiato anche dall’obiettivo 16 dell’Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile: «Pace, giustizia e istituzioni forti») può aumentare il senso di appartenenza e l’efficacia della strategia e contribuire a comporre i potenziali conflitti che non di rado si aprono a valle delle scelte top-down.
Tuttavia, anche la partecipazione può avere diverse forme: può essere lasciata alla buona volontà della società civile oppure prevista dalle norme. Nella Capitale, la spinta dal basso che ha caratterizzato tutto il processo ha portato all’inserimento, nella delibera comunale, di un articolo che garantirà la nascita di un Consiglio del Cibo. Quest’organo – che per esempio a Milano non è presente – avrà la forma di una consulta cittadina e sarà deputato a sviluppare in dialogo con la giunta un piano del cibo che concretizzi la food policy.
Tutto questo è stato possibile grazie alla spontanea attivazione di un vasto gruppo di realtà di cui Terra! è stata fra gli animatori. Nel 2019, dopo aver lavorato insieme a un gruppo di ricercatori universitari a un nuovo rapporto che fotografasse tutti gli aspetti del sistema alimentare cittadino, l’associazione ha contribuito a mettere in rete decine di attori del mondo sociale, accademico e produttivo, istituendo un comitato promotore per la food policy di Roma[11]. È stato proprio questo ampio collettivo ad avviare un dialogo con le istituzioni capitoline, che ha portato alla stesura e all’approvazione unanime in Consiglio comunale della delibera. Il testo licenziato lo scorso aprile determina chiaramente delle scadenze per la creazione di una consulta cittadina (il Consiglio del Cibo che dovrà nascere in tre mesi) e la stesura della strategia (il Piano del Cibo che vedrà la luce nei prossimi sei mesi), due strumenti che rafforzeranno il sistema alimentare romano e garantiranno la partecipazione pubblica sui temi dell’alimentazione e del cibo.
Conclusioni
Parallelamente al percorso partecipato nato dal fermento delle organizzazioni cittadine, il Comune di Roma ha avviato altri progetti di programmazione alimentare. Sono un esempio il piano Agrifood[12], nato in seno agli Assessorati Commercio e Urbanistica, e il progetto europeo FUSILLI[13]. La Città Metropolitana invece ha fatto un accordo con il Consorzio Universitario per la ricerca Socioeconomica e l’Ambiente (CURSA) per costruire un piano del cibo. La sfida sarà ora comprendere i possibili intrecci fra i diversi percorsi, nell’ottica di rendere coerente la pianificazione alimentare urbana e garantire alla società civile di giocare il ruolo di co-protagonista che la delibera comunale le assegna.
La vera sfida infatti è – come detto – definire concretamente poi implementare le politiche capitoline sul fronte dell’agricoltura e del cibo. In questo articolo abbiamo elencato aspetti critici e potenzialità del settore: la speranza è ora che il tema dell’agroalimentare possa finalmente diventare oggetto di programmazione nel Comune agricolo più grande d’Italia, e che le sue istituzioni vi pongano la stessa attenzione riservata fino a oggi ad altri ambiti della vita civile. L’urto della pandemia ha forse contribuito ad accendere un faro sull’importanza della pianificazione urbana, con le diseguaglianze finite ancor più al centro del dibattito pubblico, specialmente per quanto riguarda la povertà alimentare. Ed è forse proprio alla luce di un diritto al cibo gravemente violato, che si possono trovare le ragioni e le forze per tradurre in realtà le giuste proposte avanzate dalla società civile.
[2] S.K. Lowder, M.V.Sánchez, R. Bertini, «Which Farms Feed the World and Has Farmland Become More Concentrated?», World Development, 142, 2021.
[3] «Too Big to Feed: Exploring The Impacts Of Mega-Mergers, Concentration, Concentration of Power in the Agri-Food Sector», IPES-Food, 2017.
[4] «L’agricoltura italiana conta 2019», CREA - Centro di ricerca Politiche e Bioeconomia, 2020.
[5] «“Made in Monde”: Time to Rethink the System», UNCTAD, 2020.
[7] «Magna Roma. Perché nel comune agricolo più grande d’Italia i mercati rionali stanno morendo», Terra!, 2018.
[9] «12 passi per la terra (e il clima) Verso una transizione ecologica del sistema alimentare», Terra!.
[10] Deliberazione n. 38, Comune di Roma.
[11] «Una Food Policy per Roma», Terra!, 2019.
[12] Progetti Dipartimento Sviluppo Economico e Attività Produttive, Comune di Roma.