Interventi & Interviste

25/01/2021 Francesco Perrini

Per un capitalismo sostenibile

Dopo anni di indifferenza da parte della maggioranza delle imprese e di forte scetticismo del mondo delle discipline economico-aziendali, la sfida del cambiamento climatico, la scarsità di risorse naturale, la difesa dei diritti umani, la parità di genere, la questione delle disuguaglianze sono diventati temi centrali nelle agende di chi guida le imprese e, sempre più spesso, oggetto di dibattito nelle business school internazionali. La sostenibilità è passata dall’essere una questione prevalentemente etica e volontaristica a un tema strategico e di ripensamento della finalità dell’impresa in senso più ampio. Il «capitalismo sostenibile» sarà dunque la tendenza da seguire e perseguire anche dopo la definitiva uscita dalla crisi pandemica.

Il 2020 è stato un anno distruptive per le imprese che stanno ripensando il loro ruolo, sociale e no, e le loro attività in direzione di una maggiore sostenibilità. Gli studi sul «finalismo dell’impresa», inteso quale processo di continua ricerca, definizione e ridefinizione del senso dei ruoli individuali, organizzativi, imprenditoriali, sociali e istituzionali dell’impresa, si fanno risalire ad Adam Smith che, dopo aver studiato filosofia sociale e morale, non essendo ancora l’economia una disciplina accademica, scrisse nel 1776 Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, gettando le basi dell’economia politica classica,  e diventando il testo di riferimento per tutti gli economisti classici del XVIII e XIX secolo. La «mano invisibile del mercato» è la forza determinante di tutte le attività economiche e la specializzazione del lavoro la fonte di apprendimento ed efficienza («produzione di spilli»), mentre l’ambizione individuale serve al bene comune e il risultato migliore si ottiene quando ogni componente del gruppo fa ciò che è meglio per sé.  

Saltando diversi passaggi, critiche e teorie[1], nel 1950 John Nash mise in dubbio quanto sostenuto da Smith; egli riteneva che l’equilibrio c’è quando ogni azione individuale accresce la ricchezza complessiva del gruppo, ovvero c’è collaborazione: il risultato migliore si ottiene quando ogni componente del gruppo fa ciò che è meglio per sé e per il gruppo[2] («dinamiche dominanti»).

Nel frattempo in Italia, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico 1926 dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, Gino Zappa, che insegnava alla Bocconi, pronuncia la prolusione dal titolo «Tendenze nuove negli studi di ragioneria», che costituisce il manifesto fondativo dell’economia aziendale italiana, intesa come l’unitarietà delle discipline di rilevazione, gestione, organizzazione d’impresa. L’intervento di Zappa suscita un fervore di studi nel campo economico-aziendale italiano, formando una schiera di valorosi discepoli e che porta fino alla creazione della Scuola di Direzione Aziendale – SDA Bocconi a Milano nel 1971. Si tratta, per quegli anni, di un pensiero moderno che pone al centro dell’impresa l’esigenza di conciliare crescita economica ed equa distribuzione delle risorse, creando così un nuovo modello sociale di sviluppo. Un pensiero che anticipa di diversi anni quello che noi oggi definiamo «sviluppo sostenibile» nella prospettiva degli stakeholder.

Il 13 settembre 1970 l’economista Milton Friedman pubblicò sul New York Times Magazine un celebre articolo dove sosteneva che l’unica responsabilità di un’impresa è massimizzare i profitti per i suoi azionisti, arrivando a parlare di un gioco a somma zero basato sullo scontro fra l’idea della social responsibility e gli interessi degli azionisti, assegnando la vittoria a questi ultimi[3]. I leader aziendali lessero le sue argomentazioni e presero buona nota. Nacque così la shareholder primacy e lo shareholder capitalism. L’ascesa del pensiero di Friedman negli anni Settanta e Ottanta fu accompagnata dall’erosione delle regolamentazioni sul business e delle forme di tutela dei lavoratori, dalla nascita delle strategie basate sulla «leadership di costo», dalla finanza di mercato e dai suoi eccessi.

Negli stessi anni ci fu un dibattito molto vivo sulle finalità dell’impresa, con l’altra parte del campo occupata dalla cosiddetta «teoria degli stakeholder», il cui testo fondativo è il saggio di Ed Freeman del 1984 intitolato Strategic Management: A Stakeholder Approach, che, in prima battuta, aveva un lato normativo in cui si sosteneva che non solo l’impresa, per avere successo, avesse bisogno del contributo degli stakeholder, ma che il successo consistesse nel soddisfare gli stakeholder, pur non essendo input del processo produttivo in senso stretto.

Il 31 marzo 1987 la premier norvegese Gro Harlem Brundtland, presidente della Commissione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo, istituita 5 anni prima, presentava il Rapporto Our Common Future che definì lo sviluppo sostenibile come quel modello che consente alle generazioni presenti di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri. La necessità di ripensare le modalità di fare impresa in un’ottica più sostenibile trova nuova linfa nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, cioè il programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità sottoscritto nel settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU. L’Agenda 2030 prevede 17 Sustainable Development Goals (SDGs) declinati in un programma d’azione con 169 target da raggiungere entro il 2030. Il programma dell’ONU individua la necessità di raggiungere modalità socialmente responsabili di produrre e consumare, compatibili con la ricerca di un giusto profitto ma anche con la coesione sociale e il rispetto dell’ambiente da parte delle imprese.

Nel 2019, 181 CEO nordamericani membri della Business Roundtable[4], tra cui Jeff Bezos di Amazon, Tim Cook di Apple, Mary Barra di General Motors e Doug McMillon di Walmart, hanno firmato il nuovo «Statement on the Purpose of a Corporation», che evidenzia la centralità degli stakeholder, adottando un approccio di lungo termine nei processi di creazione di valore, secondo il quale, accanto al profitto per gli azionisti, le imprese devono perseguire altri interessi: avere un purpose sostenibile per tutti gli stakeholder. Si tratta di un manifesto destinato a segnare un cambio di passo nel modo in cui i business leader e le imprese declinano le proprie finalità e responsabilità. Potremmo dire che, da un lato, si tratta di una risposta alla lettera scritta nel 2018 da Fink «A Sense of Purpose», dall’altro, per fare un esempio di casa nostra, un ritorno ad Adriano Olivetti anni Cinquanta (finalmente!).

Aggiungiamo a quanto detto un’altra evidenza. Laurence D. Fink, il CEO di un totem del capitalismo finanziario come BlackRock, ha scritto per 4 anni di seguito una lettera ai consiglieri di amministrazione di tutte le grandi società quotate sull’indispensabilità di smantellare definitivamente il focus sui risultati di breve periodo e di attivarsi sul fronte sostenibilità, perseguendo obiettivi di creazione di valore di lungo periodo che si preservano evitando di tagliare spese e investimenti per la sostenibilità sociale e ambientale, col risultato di estrarre dagli stakeholder valore buono per gonfiare gli utili trimestrali degli azionisti. Nell’ultima lettera del 2020 si afferma che la sostenibilità debba essere il nuovo standard d’investimento. 

Nel gennaio 2020 al World Economic Forum di Davos, in tempi pre-Covid19, il tema prescelto fu «How Stakeholder Capitalism Can Solve the World’s Urgent Challenges» e a settembre 2020 è stato pubblicato un white paper dal titolo «Measuring Stakeholder Capitalism: Towards Common Metrics and Consistent Reporting of Sustainable Value Creation»[5], con l’obiettivo di accelerare la convergenza verso la standardizzazione della rendicontazione delle imprese di indicatori ESG. Infine, si potrebbe ricordare la normativa sulle società benefit introdotta in Italia nel 2016, o, sempre nel 2020, è stato aggiornato il Codice di autodisciplina corporate governance di Borsa Italiana, con diverse novità per le società quotate italiane, tra cui la politica di coinvolgimento degli azionisti e il concetto del «successo sostenibile».

È evidente come lo stakeholder capitalism, attento agli interessi di tutti e non solo agli azionisti o ai profitti, già implicava una svolta rispetto allo shareholder capitalism, aprendo la strada un capitalismo sostenibile.

Dopo anni di indifferenza da parte della maggioranza delle imprese, ma anche dopo anni di forte scetticismo da parte di una larga parte del mondo delle discipline economico-aziendali, la sfida del clima, la scarsità delle risorse, i diritti umani, la parità di genere, la questione delle disuguaglianze sono diventati temi centrali nelle agende di chi guida le imprese e sempre più spesso oggetto di dibattito nelle business school internazionali.

A cinquant’anni di distanza da Friedman, la supremazia degli shareholder sembra finita, mentre dopo trent’anni la definizione di sviluppo sostenibile appare ancora valida, di uso comune, ma soprattutto attualissima. Oggi cittadini e leader aziendali invocano un cambiamento di mentalità a favore di un capitalismo sostenibile in base a cui le imprese sono responsabili nei confronti di tutti gli stakeholder, compresi clienti, dipendenti, fornitori, comunità, istituzioni e azionisti/investitori.  Non è un caso che oggi uno dei termini più utilizzati nel lessico manageriale sia proprio «sostenibilità».

Sembra poi che l’attuale emergenza sanitaria, economica e sociale determinata dalla pandemia da coronavirus, abbia accresciuto l’attenzione verso la sostenibilità. Si tratta di una «accelerazione della storia», come le definisce efficacemente lo storico israeliano Yuval Harari. I temi green e social sono diventati uno degli elementi centrali su cui fondare la ripartenza. Con l’insediamento alla Presidenza europea di Ursula von der Leyen, si è attuata la svolta green europea grazie alla concentrazione, per i prossimi anni, del flusso dei finanziamenti disponibili a livello nazionale e comunitario sui cosiddetti green new deal, con l’approvazione del Piano di Azione nel luglio 2019 che prevede uno stanziamento di circa 1000 miliardi di euro nell’arco di un decennio per trasformare la sfida climatica e dell’ambiente in un’opportunità, garantendo lo sviluppo di una società più giusta, prospera, fondata su un’economia moderna e competitiva. Tale trend è stato poi accelerato e incrementato a seguito dell’accordo per finanziare con 750 miliardi il Next Generation EU («Supporting the Green Transition to a Climate-Neutral Economy Via Funds from Next Generation EU»).  L’Italia sarà il maggior beneficiario con quasi 209 miliardi di euro («Piano Nazionale Riprese e Resilienza»).

Il capitalismo, insomma, era già in crisi profonda prima, ma è stato definitivamente smascherato dalla pandemia da coronavirus e dal danno che questo ha provocato alle strutture globalizzate e finanziarie, costruite sulla fragile fondazione di debiti e crediti. Inoltre, il vecchio modello capitalistico non è più in grado di garantire il benessere umano e spinge l’ecosistema del pianeta verso il collasso. Non solo le sue carenze basate su sviluppo/produzione/smaltimento sono evidenti, ma la richiesta di un’economia più circolare e sostenibile si sta intensificando. Ormai è ben chiaro a tutti come non possa esistere un futuro senza stakeholder vivi e in buona salute. Pertanto, la necessità di costruire un nuovo capitalismo sostenibile non è più una contraddizione.

A proposito di capitalismo sostenibile, merita estrema attenzione il ripensamento in corso da tempo sul ruolo e la funzione delle imprese, anche alla luce dell’accelerazione che si registra nella dinamica del finalismo d’impresa post-coronavirus. Si tratta di una dinamica che, con specifico riguardo alle attività d’impresa, era in corso da decenni, con «ondate managerali»: dalla business etichs alla crescente attenzione agli investimenti e ai progetti di Corporate Social Responsibility-CSR; dalla corporate sustainability integrata strategicamente e con implicazioni sulle scelte aziendali in tema di impatti all’attenzione ai fattori Environmental, Social & Governance-ESG per la valutazione delle imprese da parte della comunità finanziaria.

Ignorare l’agenda della finanza ESG è praticamente impossibile. Come scritto da Fink, ogni impresa dovrebbe non solo preoccuparsi di realizzare buone performance economico-finanziaria ma anche dimostrare come e quanto stia contribuendo a generare una positiva performance per il contesto socio-ambientale in cui opera. Ciò che è cambiato in questi ultimi tempi, è che molti sono stati costretti a intervenire accelerando la trasformazione tecnologica digitale delle loro organizzazioni ma, contemporaneamente, anche quella finalistica, dovendo re-immaginare il proprio futuro.

Si registra un’accelerazione del processo di trasformazione finalistica delle imprese in direzione sostenibilità e, di conseguenza, di purposeful business transformation della struttura, delle relazioni e della corporate governance, nonché del comportamento quotidiano di individui e organizzazioni. Perché tale trasformazione funzioni, finalità e obiettivi logicamente o causalmente devono avere una vera ragion d’essere duratura, che giustifichi l’esistenza dell’impresa in termini sociali. Non si tratta di un processo facile, ma richiede metodo e sacrifici, oltre che coinvolgimento, per bilanciare obiettivi e performance economici e di purpose. La sfida è anzitutto quella di scegliere finalità coerenti con la natura, l’attività, la storia e la cultura aziendale, con percorsi di integrazione fra obiettivi economico-finanziari di breve e performance di lungo periodo, superando il dualismo tra short-terminism negativo vs long-terminism positivo. Dopo aver definito il nuovo fine, per la trasformazione aziendale diventa fondamentale far evolvere nuove routine organizzative in tale prospettiva che rendano i processi aziendali sempre più e sempre meglio interconnessi tra di loro, andando a influenzare le dinamiche di generazione del valore.

In conclusione, la sostenibilità d’impresa è passata dall’essere una questione prevalentemente etica e volontaristica o di risposta alle pressioni esterne a un tema strategico e di ripensamento della finalità dell’impresa in senso più ampio. È la fine del business as usual, ed è importante superare la visione di Michael Porter della globalizzazione dell’impresa basata sul perseguimento delle strategie di leadership di costo, cioè il superamento del capitalismo basato sulla specializzazione a bassi costi della catena del valore[6], come poi ribadito nel 2011 con Kramer[7], lanciando a livello planetario il concetto di «valore condiviso»[8], definendo il Corporate Shared Value-CSV come «l’insieme delle politiche e delle pratiche operative che rafforzano la competitività di un’azienda migliorando nello stesso tempo le condizioni economiche e sociali della comunità in cui opera»[9].

La creazione di valore condiviso si focalizza sull’identificazione e sull’espansione delle connessioni tra progresso economico e sociale. Si deve lavorare al rilancio della comunità e delle finalità dell’impresa nella prospettiva di sostenibilità, riagganciando la finanza all’economia reale e sviluppando nuove eccellenze manageriali in grado di coniugare in modo olistico la crescita aziendale con le preoccupazioni sociali e ambientali, integrando la sostenibilità nelle logiche di governance e nei processi di innovazione tecnologia e di design dei prodotti, nei business model e nelle filiere, favorendo sia lo sviluppo di imprese eccellenti sostenibili, sia un’economia sempre più circolare, e, in definitiva, auspicando una più ampia affermazione dello stakeholder capitalism.

Il «capitalismo sostenibile» sarà dunque la tendenza da seguire e perseguire anche dopo la definitiva uscita dalla crisi pandemica.



[1] Tra i vari approcci ricordiamo l’economia classica e neoclassica, il comportamentismo, l’aziendalismo italiano, la teoria dell’agenzia, del valore, e la sistemica. Per tutti, si rimanda a: A. Marshall, Principles of Economics, Londra, Macmillan, 1922 (ed. it., Principi di economia, Torino, Utet, 1972); W.J. Baumol, Business Behavior, Value and Growth, Londra, Macmillan, 1959; G. Zappa, Reddito d’impresa, Milano, Giuffrè, 1950; P. Saraceno, Il governo delle aziende, Milano, Libreria Universitaria Editrice, 1972; M.C. Jensen, W.H. Meckling, «Theory of the firm: Managerial Behavior, Agency Cost and Ownership Structure», Journal of Financial Economics, 3(4), 1976, pp. 305-360.

[2] Nel caso del dilemma del prigioniero, ciò è evidente: il valore minimo possibile di anni di carcere è 0 per il singolo e 2 per il gruppo, ma se entrambi scelgono la propria strategia dominante, ne prendono 6 a testa.

[3] Fondata nel 1972 dagli allora amministratori delegati di Alcoa e General Electric

[4] «Esiste una e una sola responsabilità sociale delle imprese: utilizzare le proprie risorse e impegnarsi in attività finalizzate ad aumentare i propri profitti rispettando le regole del gioco, vale a dire impegnarsi in una concorrenza aperta e libera senza inganni o frode», «The social responsibility of business is to increase its profits», New York Times Magazine, 13 settembre 1970.

[6] M.E. Porter, Il vantaggio competitivo, Torino, Einaudi, 1985.

[7] M.E. Porter, M.R. Kramer, «Creating Shared Value», Harvard Business Review, gennaio-febbraio 2011.

[8] F. Perrini, «Corporate Social Responsibility e performance d’impresa. Un modello d’analisi della creazione di valore per la gestione delle imprese», Finanza Marketing Produzione, 4, 2003, pp. 25‐60.

[9] Porter, Kramer, «Creating Shared Value», op. cit.

Capitalismo sostenibile