Interventi & Interviste
Per aspera ad astra: l’Italia e il Covid-19
La crisi attuale è una sfida globale senza precedenti in termini di impatto sanitario, economico, sociale e geopolitico. In questo momento, più di 4 miliardi di persone in più di 100 Paesi stanno ancora sperimentando qualche tipo di lockdown. Ogni Paese ha scelto la propria strategia e adottato una molteplicità di misure nel tentativo di combattere una minaccia che non ha precedenti. Le decisioni politiche riguardanti il cosiddetto distanziamento sociale e le chiusure delle frontiere svolgono innegabilmente un ruolo importante nella partita contro questa epidemia.
Le caratteristiche dei vari sistemi sanitari hanno certamente avuto un grande effetto sulla capacità di ciascun Paese nel fronteggiare l’epidemia. A mano a mano che l’emergenza si è diffusa in tutto il globo, i sistemi sanitari nazionali hanno fronteggiato enormi pressioni per gestire i pazienti colpiti da Covid-19 e, allo stesso tempo, rispondere ai bisogni sanitari non collegati alla pandemia. Impegnati in uno stress-test che non ha paragoni, i sistemi sanitari hanno ben compreso cosa serve per affrontare: 1) l’epidemia, con una capacità di potenziare il personale, il numero dei posti letto negli ospedali, i programmo territoriali per gestire a domicilio le persone, le scorte di presidi sanitari; 2) il post-epidemia, con il ripristino dei precedenti livelli di quantità e qualità delle prestazioni per i pazienti non-Covid-19 che sono stati lasciati indietro dall’emergenza.
L’Italia, prima democrazia occidentale a fare i conti con questa battaglia senza precedenti, fornisce un’opportunità unica per riflettere sulle lezioni apprese sul campo; lezioni importanti anche per le ripercussioni sul ritorno a una «normalità» che probabilmente sarà molto diversa da quella che abbiamo lasciato a fine febbraio.
L’esperienza italiana è già stata usata per mettere in evidenza gli effetti indesiderati e i limiti della risposta di un Paese, con il presupposto che gli altri Paesi avrebbero dovuto «imparare dagli errori dell’Italia»[1]. Si è giunti a sostenere che specifici aspetti del contesto italiano avessero condotto i policy maker a commettere numerosi errori nella gestione della pandemia, portando il Paese al disastro.
La realtà italiana, però, è ben lontana dal disastro (ben presto le si sono affiancate situazioni nazionali almeno altrettanto pesanti) e le lezioni da apprendere non sono (soltanto) quelle che derivano dagli (inevitabili) errori. Il nostro caso contiene diverse intuizioni che vanno oltre la risposta attuale alla pandemia e possono essere utili per orientare la discussione non solo nazionale su politiche future. Lo scopo di questo articolo è mettere in evidenza alcune di queste lezioni nella speranza che, una volta superata la pandemia, non vengano subito dimenticate.
Lezione n. 1: il sistema sanitario è la base della società
Uno dei fatti che più colpiscono della crisi è la fondamentale importanza della salute e del sistema sanitario per la società nel suo complesso. L’antico adagio «La ricchezza più grande è la salute» non è mai apparso così pertinente.
Per quanto ovvio possa sembrare, porre la salute della popolazione e i sistemi sanitari al centro dell’azione di governo non è affatto scontato. In realtà, in ogni Paese le risorse per la salute e la sanità dipendono da complesse interazioni tra una varietà di fattori istituzionali, sociali ed economici, ma anche di valori politici e culturali.
Le pressioni per il contenimento dei costi e le misure di austerità adottate negli anni recenti hanno avuto un impatto significativo sulle risorse disponibili. Attualmente, l’Italia spende per la sanità meno della maggior parte dei Paesi dell’Europa occidentale. In seguito alla crisi economica del 2009, la spesa sanitaria totale pro capite è diminuita sensibilmente fino al 2013, poi è cresciuta moderatamente e, con 3428 euro pro capite, resta ben al di sotto dei 5986 euro pro capite della Germania. In linea con il trend osservato in quasi tutti i Paesi UE, tra il 2000 e il 2017 il numero dei posti letto in ospedali pubblici ha registrato una diminuzione di circa il 30 per cento, scendendo a 3,2 letti per 1000 abitanti, ancora una volta ben al di sotto della media UE. Nello stesso periodo, il numero di medici, infermieri e altre figure professionali della sanità pubblica si è contratto significativamente, perdendo oltre 40.000 unità. Si è detto che il sotto-finanziamento del SSN, che rappresenta l’architettura dell’offerta pubblica e privata accreditata, potrebbe avere giocato un ruolo centrale nella gestione della crisi. Dopo anni di stretto controllo finanziario, quando lo tsunami è arrivato, molti ospedali stavano operando al 95 per cento della loro capacità. A fronte di fondi limitati e di capacità al limite, il sistema sanitario ha dovuto fare affidamento sulla sua risorsa principale: le persone. I professionisti della sanità a tutti i livelli, insieme con uno straordinario esercito di volontari, sono scesi in battaglia senza esitazione nel nome dei valori che sono alla base del SSN: universalismo, uguaglianza ed equità.
Quali sono le lezioni apprese? Innanzitutto, le politiche di contenimento della spesa per i servizi per la tutela della salute devono essere riviste. Gli avvertimenti sui rischi che tali politiche comportavano sono stati trascurati troppo a lungo. L’attuale epidemia ha dimostrato che sistemi sanitari debilitati possono essere portati sull’orlo del collasso con conseguenze imprevedibili per l’intera società. Un Paese non dovrebbe essere costretto a scegliere tra la salute pubblica e l’economia. È da sperare che questo principio guidi l’allocazione dei 3,5 miliardi di euro extra stanziati dal governo per il SSN.
In secondo luogo, l’esperienza italiana della pandemia ha messo in luce un altro fatto innegabile, che spesso sembra assente da molti modelli di crescita economica. Tutte le istituzioni economiche e sociali dipendono interamente da attività eseguite da persone. La pandemia ha mostrato la relazione fondamentale tra la componente umana, la produzione e la tecnologia. Mentre cresceva il numero delle persone in quarantena, l’attività economica ha perso colpi fino ad arrestarsi, un settore dopo l’altro. Senza persone, o per meglio dire, senza persone sane, la società e l’economia non possono lavorare.
Ciò è soprattutto evidente in Paesi dove le economie sono particolarmente labor-intensive e orientate all’esportazione, come è il caso di molte imprese italiane con base in Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte, le regioni più colpite dall’infezione. In queste aree, le aziende esportatrici sono in gran parte microimprese con un personale spesso in viaggio per lavoro. Il SSN rappresenta un elemento di protezione per un tessuto economico di questo tipo ecco perché investire su di esso significa investire sulla continuità delle attività economiche.
Lezione n. 2: una stewardship chiara è essenziale, specialmente nei sistemi decentrati
Il SSN è un sistema basato sulle regioni e quindi fortemente decentrato. Le regioni hanno, tra l’altro, l’incarico di allocare il fondo sanitario regionale (equivalente a quasi l’80 per cento del totale dei bilanci delle regioni), determinando il numero e il tipo (per esempio, pubblici piuttosto che privati) degli erogatori autorizzati a fornire servizi sanitari, regolando il sistema delle remunerazioni per i servizi ospedalieri e di comunità e gli schemi di co-payment (ticket) per le popolazioni residenti. L’elevato livello di autonomia concesso alle regioni è concepito allo scopo di 1) rispondere efficacemente alle necessità sanitarie dei residenti, date le differenze (socio-economiche, demografiche, geografiche) dei vari contesti; 2) responsabilizzare le regioni per i risultati ottenuti nel perseguimento degli obiettivi generali, stabiliti a livello nazionale, in termini di quantità e qualità dei servizi da garantire a tutti i cittadini.
In tempi di emergenza, l’efficacia dei sistemi decentrati può essere misurata dalla prontezza e dalla determinazione del coordinatore o stewart (il governo centrale) nel creare le condizioni per affrontare l’emergenza (per es., infrastruttura, forniture, sistemi informativi, comunicazione) e, da parte degli attori locali, nel mettere in pratica in modo efficiente, e se necessario adattare, le linee guida nazionali per l’esecuzione locale, secondo un tipico schema comando-e-controllo. Ma Covid-19 ha fatto vacillare questo equilibrio. Questo modello è stato messo in discussione dal fatto che la pandemia mordeva ai fianchi in modo diverso le regioni. Fin dall’inizio, alcune hanno lamentato che la risposta del governo centrale era troppo lenta e inefficace, e hanno organizzato in autonomia alcune risposte. Cosa che sta tuttora accadendo. Le regioni usano ognuna test sierologici differenti, adottano provvedimenti differenti per riaprire le aziende manifatturiere e le altre attività economiche o per attenuare le misure di contenimento della diffusione del virus. Perché accade questo?
Il nostro SSN è di alta qualità e basso costo, ma con enormi differenze tra regioni in termini di capacità di offerta e di capacità manageriali, per lo più a favore delle regioni settentrionali. Le regioni del Nord tendono a considerare il governo centrale come troppo lento e burocratico per essere all’altezza delle sfide attuali e future e, di conseguenza, hanno imparato ad agire da sole. Le regioni meridionali accusano il governo centrale di averle private della capacità di risollevarsi in completa autonomia a causa delle misure di austerità di cui sono state vittime. La pandemia Covid 19 ha messo in evidenza queste differenze poiché i periodi di crisi tendono a far risaltare – o a esasperare – le debolezze intrinseche.
Qual è la lezione da imparare? Il SSN è tra i pochi sistemi sanitari che si sforzano di garantire un accesso universale alle cure a tutti i cittadini. La sua performance è tra le migliori, i suoi costi tra i più bassi. Il SSN vanta eccellenti scienziati e professionisti appassionati al loro lavoro che – ogni volta che si rende necessario – continuano a dimostrare la loro capacità di serrare le file e dare il meglio di sé. Il SSN è uno dei gioielli italiani di cui siamo orgogliosi e che dobbiamo proteggere. Tuttavia, se i poteri tra il governo centrale e le regioni non vengono riequilibrati, il suo futuro è in pericolo.
Il governo centrale deve diventare meno burocratico, snellire i processi e le procedure, accrescere la sua capacità di analizzare e interpretare i trend demografici, epidemiologici, tecnologici futuri in modo tale da prefigurare politiche sanitarie in grado di preservare i principi fondativi del SSN e nello stesso tempo garantire la sua sostenibilità finanziaria. Esso dovrebbe centralizzare le attività che hanno implicazioni a livello nazionale e non sono influenzate da contesti locali, come lo sviluppo di un sistema informativo, la valutazione delle tecnologie sanitarie, le politiche di copertura e rimborso, al fine di liberare le risorse regionali che devono invece essere allocate nella programmazione, progettazione e organizzazione dell’erogazione di servizi sanitari efficaci ed efficienti alla popolazione locale. Il governo centrale dovrebbe anche incentivare le regioni a incrementare – e livellare verso l’alto – le competenze manageriali in tutto il Paese e tra regioni come pure tra le regioni e il governo. Regioni più forti, rispetto al governo centrale, tendono ad allontanarsi dal “centro” se pensano di non avere nulla da imparare o da guadagnare. Istituzioni regionali più deboli si allontanano dal centro se temono di doversi assumere eccessive responsabilità a fronte però di una ridotta capacità di incidere sulla performance dei rispettivi sistemi sanitari. Conciliare un’universalità del diritto alla tutela della salute con le innegabili specificità dei contesti territoriali non è materia facile che certamente l’esperienza Covid 19 ha messo sotto tensione.
Lezione n. 3: ripensare la sanità di comunità
In un recente articolo, Pisanu, Sadun e Zanini affermano che «l’Italia ha inseguito la diffusione del virus piuttosto che prevenirla»[2]. Questo è vero. Perché è andata così? Avremmo potuto fare altrimenti?
Benché il SSN si sia trovato a corto di personale e impreparato, anche perché è stato il primo, al Covid-19, si deve riconoscere che per nessun Paese sarebbe stato facile essere preparato a un tale tsunami. In pochi giorni, gli interventi chirurgici elettivi sono stati cancellati, le attività programmate posposte e sono stati raddoppiati i posti letto di terapia intensiva. Quando Covid-19 ha cominciato a diffondersi, in Italia i posti letto nei reparti di terapia intensiva erano circa 5200. Il 24 marzo, erano stati aggiunti altri 3000 posti letto, destinati a pazienti infetti. Tutto considerato, l’Italia ha cercato di mettersi al passo con la diffusione del virus saturando ed espandendo le risorse ospedaliere. Il problema è che, in molti casi, gli ospedali erano essi stessi dei luoghi di infezione, gettando così benzina sul fuoco. Ma con differenze tra regioni. Perché?
Questa differenza può essere attribuita (forse non esclusivamente) a due ragioni generali. La prima è legata alle differenze nell’organizzazione dell’assistenza primaria e delle modalità di coordinamento tra assistenza primaria e cure specialistiche. Le regioni con modelli di assistenza sanitaria primaria più robusti sono state in grado di tenere i pazienti a casa, organizzando forme differenti di monitoraggio da remoto, in modo tale da alleviare la pressione sugli ospedali e, nello stesso tempo, fornire cure efficaci ai pazienti rimasti a casa. La seconda ragione importante è connessa a modelli di sanità pubblica che in Italia sono interpretati dai Dipartimenti di Igiene e sanità Pubblica presenti in tutte le Aziende sanitarie locali (ASL). Abbiamo avuto un problema non solo nella connessione tra ospedale e territorio ma anche tra modelli di offerta di sanità pubblica rivolta alle comunità e interventi sulla singola persona. La pandemia (ma anche l’epidemia) ci hanno ricordato che con fenomeni così diffusi sono importanti gli strumenti di indagine collettiva perché è pericoloso aspettare il virus in ospedale. Il caso del paziente 1 a Codogno è emblematico: è stato identificato in pronto soccorso perché il suo profilo clinico ha insospettito il personale sanitario che, a dispetto del protocollo, lo ha sottoposto al test per individuare la presenza del virus. Gli strumenti incentrati sul singolo paziente rischiano di essere trascurati, come una goccia d’acqua nell’oceano, mentre gli interventi di comunità (che sono mancati non solo in Italia) sono fatti su misura per occuparsi del target potenziale, attivando strumenti sentinella per i gruppi più a rischio e, cosa della massima importanza, al di fuori dell’ospedale. Andare verso l’intervento di comunità richiede la riconnessione tra interventi di sanità pubblica con quelli rivolti ai singoli cittadini, questa riconnessione richiede competenze manageriali e non (solo) cliniche perché occorre riorientare due filiere si servizi con orientamento diverso.
Lezione n. 4: portare le competenze manageriali a un nuovo e più alto livello
Se il livello centrale (forse inevitabilmente) è stato lento a reagire, le singole regioni e, più in particolare, le ASL, gli ospedali e gli erogatori di servizi sanitari, hanno mostrato una grande iniziativa nella ricerca di soluzioni operative. Gli ospedali sono stati in grado di trasformare organizzazioni e strutture con una rapidità mai vista prima. Abbiamo visto strutture completamente trasformate e ampliate rispetto al numero di posti letto nei reparti (soprattutto) di terapia intensiva, e agli spazi dedicati al triage: i limiti maggiori sono stati individuati nella disponibilità di tecnologie di qualsiasi genere (per esempio, dispositivi di protezione, ventilatori polmonari, ossigeno, kit diagnostici).
Se c’è una cosa che gli italiani hanno capito, è che le aziende erogatrici di servizi sanitari (ASL e ospedali) possono essere ad un tempo flessibili e sotto controllo, e ciò si deve in gran parte alla capacità del top management di organizzare le attività anche in presenza di vincoli e di una situazione sconosciuta. Questa comunità silenziosa di professionisti (i manager della sanità, e in primo luogo i direttori generali) ha agito imprimendo un nuovo orientamento all’organizzazione delle aziende sanitarie riorientando pachidermi imponenti (la popolazione di riferimento di un’ASL è in media di 500.000 abitanti) per via delle continue fusioni aziendali degli ultimi anni. Gli ospedali e le ASL sono stati in grado non solo di resistere all’attacco del virus, ma anche di sperimentare modelli di offerta nuovi anche nel silenzio di indicazioni regionali o nazionali.
Ora, entrati nella Fase 2, sorgono nuove questioni. Per esempio, che fare della nuova capacità di recente espansione quando la pandemia Covid-19 sarà (come speriamo) solo un brutto ricordo? Se è vero che dobbiamo prepararci a una seconda ondata, converrebbe «mettere fieno in cascina» e creare luoghi dedicati alla gestione del virus evitando la sospensione di quelle attività routinarie che hanno reso pericoloso il contatto con i servizi sanitari. Certamente, dobbiamo ripensare le piattaforme diagnostiche che limitano la possibilità di sottoporre a test grandi quantità di persone per identificare la popolazione colpita dal virus. Alcune aree hanno risposto alla pandemia riorganizzando l’erogazione del servizio, facendo emergere nuovi modelli di cura reticolari o hub-and-spoke, e persino costruendo nuovi ospedali dedicati unicamente ai pazienti di Covid-19. Come si dovranno impiegare i nuovi modelli e le nuove strutture oggi e domani? Queste domande richiedono non soluzioni isolate per quanto eccellenti, ma risposte coordinate, ispirate a una visione e a una strategia chiare.
Se il SSN sarà capace di incentivare, massimizzare e coordinare la condivisione di conoscenza tra erogatori e tra regioni, la sua performance continuerà a trovare un supporto nell’instancabile lavoro di ciascun suo professionista. Per vincere il campionato occorre una squadra forte e coordinata e non singoli goleador.
Per aspera ad astra
Il coronavirus ha messo metà del pianeta in ginocchio. Quando l’epidemia sarà finita, le perdite umane saranno dolorosamente incalcolabili mentre le ripercussioni negative sull’economia a livello globale ammonteranno a migliaia di miliardi di dollari americani. Per quanto paradossale possa sembrare, crediamo che Covid-19 non abbia creato nuovi problemi, ma abbia portato violentemente allo scoperto molte delle sfide che incombono da molto tempo sui sistemi sanitari. Non fosse per il prezzo esorbitante che stiamo pagando, potremmo dire che è solo un promemoria. Quando questa tragedia sarà finita, il peggior errore che potremo fare, spinti da un impaziente e legittimo desiderio di riprendere le nostre vite normali, è dimenticare. Ma questo vorrebbe dire che tanta sofferenza non ha portato a niente e non è servita a nessuno. Una sciagura che non vogliamo e non possiamo permetterci.
Quando Covid-19 passerà, la lezione da imparare è che scambiare la salute nel mercato è un errore perché conduce a inefficienze e disparità che poi – in un modo o nell’altro – devono essere più che compensate da altri settori produttivi dell’economia. Gli Stati svolgono un ruolo centrale nel regolare i sistemi sanitari e ciò diventa anche più vero in tempi di epidemia e di pandemia, ossia ogni volta che la salute rivela chiaramente la sua natura di bene pubblico. Affidare la produzione e l’erogazione dei servizi sanitari unicamente al mercato è un’illusione che può trasformarsi bruscamente in una amara disillusione.
La sanità è il fondamento della società e deve essere finanziata adeguatamente. Innovazione tecnologica, attrezzature moderne, personale sanitario preparato, manager preparati, tutto contribuisce a migliorare la salute della popolazione. Di conseguenza, le risorse allocate devono essere adeguate in base al principio del costo-efficacia. Gli investimenti in capacità gestionale – adeguatamente remunerata – sono fondamentali per modellare le organizzazioni del sistema sanitario e dirigerle dove un progresso scientifico, ieri inimmaginabile, ci sta conducendo inesorabilmente. La salute e l’istruzione sono i più importanti determinanti della ricchezza e devono essere remunerate come meritano. Nessun miracolo dura per sempre.
Traduzione di Giuseppe Barile.
[1] «Lessons from Italy’s Response to Coronavirus», Harvard Business Review, 27 marzo 2020.
[2] Ibidem.