Interventi & Interviste
Gran mali e grand’errori
Per migliorare è necessario riconoscere gli errori. È un principio base, semplice, che impariamo tutti noi fin da piccoli, per esempio sui banchi di scuola: quando fai un errore di ortografia in un dettato, l’insegnante lo evidenzia con un segno rosso. Qui hai sbagliato, non devi farlo più. E non importa se su cento parole, ne hai scritte correttamente settanta. Ti devi concentrare sulle trenta che hai sbagliato. Tutti noi ci siamo passati eppure questo principio così semplice molti se lo dimenticano.
Gli eventi di queste settimane hanno tragicamente evidenziato che sono stati commessi molti errori: lo dimostrano il numero dei morti, il numero di persone che non hanno ricevuto assistenza adeguata o l’hanno ricevuta in ritardo, la carenza di strumenti per affrontare l’emergenza (respiratori e mascherine). E bisogna riconoscere che la regione più colpita – la Lombardia – è anche quella che teoricamente avrebbe dovuto essere la più avanzata, quella con maggiori risorse per reagire.
Quello cui stiamo assistendo stride con l’immagine che avevamo dell’Italia come uno dei migliori sistema sanitari al mondo e la Lombardia come una delle sue punte più avanzate. È indubbiamente vero che stiamo vivendo un evento eccezionale ed è a tutti evidente che anche molti altri Paesi sono stati travolti e non erano preparati (si veda il caso degli Stati Uniti o della Spagna). Noi però ci siamo mossi non solo da una situazione di (presunta?) superiorità, ma anche prima di tutte le altre nazioni occidentali. Se è vero che il nostro sistema sanitario è migliore di quello degli altri, se è vero che abbiamo compreso la gravità dell’evento e abbiamo introdotto strutture e task force dedicate con riunioni quotidiane e abbiamo – prima di altri – introdotto misure restrittive, perché da noi il coronavirus ha avuto effetti così devastanti, ben superiori ad altre nazioni che hanno, a differenza nostra, inizialmente sottovalutato il problema? Rispondere – come purtroppo è successo – che siamo stati sfortunati, indica due cose: 1) di fatto non eravamo pronti; 2) se questa è la risposta che ci diamo allora pronti non lo saremo mai.
È sconfortante rileggere oggi alcuni passaggi sulla peste dei Promessi Sposi – «e mentre in alcune parti della città, alcuni di quei più abbandonati e ridotti all’estremo venivan levati di terra, rianimati, ricoverati e provveduti per qualche tempo; in cent’altre parti, altri cadevano, languivano o anche spiravano, senza aiuto, senza refrigerio»[1] – e constatare che molti cittadini italiani si sono trovati nelle stesse condizioni[2]. Il nostro sistema sanitario ha infatti dovuto affrontare l’emergenza fondandosi sul sacrificio enorme di medici e personale sanitario in condizioni di estrema carenza di materiali e di persone. Quando queste ultime sono costrette a fare «miracoli» con le risorse a disposizione allora significa che il sistema non era pronto. La carenza di materiali, da quelli più complessi come i respiratori a quelli più semplici come le mascherine, evidenzia inoltre come il secondo Paese manifatturiero in Europa dopo la Germania non sia stato in grado di rispondere in tempi rapidi a tale domanda. Questo è avvenuto in parte perché è mancato un coordinamento a livello governativo, in parte per le difficoltà nella riconversione del sistema produttivo, in parte perché la delocalizzazione di molte attività in altre nazioni ha determinato una mancanza di competenze che non possono essere riacquisite velocemente. Costruire mascherine secondo alcuni standard di qualità non si è infatti dimostrato così semplice come si poteva inizialmente pensare (e infatti il 98 per cento dei prototipi non passa il test)[3]. E, oltre alla qualità, vi è comunque il tema della quantità che si riesce a produrre.
Uno dei problemi maggiori è stato però quello della comunicazione. Durante un’emergenza la corretta comunicazione è fondamentale. E qui vi è stato il vero disastro a tutti i livelli. Soggetti istituzionali che prima lanciano l’allarme, poi sdrammatizzano, poi rilanciano l’allarme e si stupiscono se i cittadini sono confusi; sindaci di comuni importanti che, insieme ad associazioni di commercianti e imprese, diffondono improvvidi messaggi di ritorno alla normalità dopo che altri comuni nella stessa regione sono già stati colpiti e hanno sospeso le attività commerciali; mancato coordinamento tra governo e regioni; programmi di informazione che ospitano persone che non hanno alcun titolo per esprimere valutazioni sull’epidemia ed esperti che – sulla base di dati esigui e non comparabili – esprimono giudizi senza alcun fondamento scientifico; smania di protagonismo di soggetti che invece di gestire l’emergenza affollano le trasmissioni televisive. In tutti questi casi si sarebbe dovuto seguire «il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare». Ma come ci ricorda Manzoni, «parlare è talmente più facile di tutte quell’altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire».[4]
A questa proliferazione di canali di comunicazione vi sono poi alcuni strumenti (come per esempio gli sms sui cellulari) che non sono mai stati utilizzati per diffondere messaggi di interesse nazionale o anche regionale. Spesso, in caso di emergenze o calamità, le informazioni ai cittadini italiani all’estero viaggiano via sms e l’unità di crisi del ministero degli Affari esteri ha da tempo[5] avuto il via libera per dare incarico agli operatori telefonici di inviare, anche senza consenso, sms con informazioni utili in situazioni di emergenza. Nel caso del Covid-19 non è stato utilizzato uno strumento che può raggiungere la maggioranza della popolazione (anche chi non guarda la televisione o legge i giornali), anche in base alla localizzazione in alcune aree geografiche ben delimitate. Quando – prima del lockdown nazionale – molte persone (spesso i più giovani) continuavano a uscire e a comportarsi normalmente forse questo strumento sarebbe stato utile. E forse potrebbe ancora essere utile inviare messaggi d’avvertimento a chi si sposta in celle distanti da quella d’origine.
Questo, purtroppo, non è solo un periodo «di gran mali», ma anche «di grand’errori» e – come ci ricorda sempre Manzoni – «per verità ci fu dell’uno e dell’altro, al di la di quel che si possa immaginare».[6] Una volta che si saranno alleviati i primi è su questi ultimi che si deve riflettere e lo si deve fare senza indugio e con chiarezza. Troppo spesso, una volta passata l’emergenza, ci si rallegra per questo e ci si dimentica degli errori e delle responsabilità. E chi preme in questa direzione viene subito tacciato di voler indugiare su un triste passato invece di guardare al radioso futuro. È sempre la stessa storia: durante l’emergenza non si può sollevare il tema perché la priorità è l’emergenza (lasciateci lavorare, si dice), una volta che questa è passata non si deve farlo perché si deve guardare al futuro (lasciateci gioire, non rovinate la festa). E se si affronta il tema – pur nella drammatica evidenza degli errori commessi – la conclusione è spesso che «a voler trovarne il fondo, o non se ne viene a capo, o vengon fuori cent’altri imbrogli»,[7] quindi meglio «sopire, troncare… troncare, sopire». Speriamo che almeno qui non seguiremo le stesse conclusioni.
Fabrizio Perretti è Direttore di Economia & Management e Professore di Strategia Aziendale presso l’Università Bocconi.
[1] A. Manzoni, I promessi sposi, Milano, Garzanti, 2001, p. 389.
[2] «Coronavirus. Anziani, le morti silenziose in casa e nelle residenze di cura», Avvenire, 28 marzo 2020; «Coronavirus, in Lombardia 9 morti su 10 mai giunti in terapia intensiva», TGCOM 24, 20 marzo 2020.
[3] Mascherine il 98% dei prototipi non passa il test del Politecnico», Il Sole 24 ore, 29 marzo 2020.
[4] Manzoni, op. cit., p. 439.
[5] «Sì agli sms della Farnesina agli italiani all’estero in situazioni di emergenza», Il Sole 24 ore, 12 agosto 2013.
[6] Manzoni, op. cit., p. 424.
[7] Manzoni, op. cit., p. 263.