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22/01/2019 Beatrice Bauer

Una leadership positiva per guidare i Millennials

Di seguito proponiamo ai lettori di Economia & Management l'introduzione di Beatrice Bauer al recente volume di Laura Baruffaldi Leading Millennials.

«Dottoressa, è arrivato il momento di fare la rivoluzione in azienda e abbiamo bisogno del suo aiuto!» Così, all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, il direttore del personale di una grande assicurazione (a quei tempi) italiana si rivolse a me, allora una psicologa e psicoterapeuta clinica, ma ancora alle prime armi come consulente aziendale e formatore manageriale.

In cosa consisteva la «rivoluzione culturale» della quale il mio entusiasta interlocutore mi annunciava l’aurora, forte della benedizione del suo potentissimo AD? Nel cercare di passare, nella relazione tra capo e collaboratore, dalla prescrizione di compiti alla gestione per obiettivi. Mi feci contagiare dall’entusiasmo, convincendomi dentro di me dal fatto che negli Stati Uniti, dove avevo lavorato per grandi istituzioni cliniche, quello era il modo più comune di gestire una relazione nella quale il capo si aspetta molto dal suo collaboratore, ma non si sostituisce a lui. Non la chiamavano ancora empowerment, ma erano già i semi di quella cosa lì. Per questo accettai di condurre un progetto di formazione che aveva l’ambizioso obiettivo di cambiare modo di pensare, di parlare, di comportarsi e di essere di centinaia di capi di vari livelli di un’impresa assicurativa del secolo passato. Ho scritto ambizioso perché era quello che pensavo prima di cominciare.

Alla fine convenni che, a parte pochi casi di persone già illuminate e ben predisposte, l’aggettivo giusto da utilizzare era «impossibile». Anzitutto perché un paio di giorni di formazione orientati a questi obiettivi così sfidanti cambierebbero profondamente una persona solo se si fosse dotati di poteri taumaturgici esprimibili con la semplice imposizione delle mani o dell’abilità dell’esorcista che, se scaccia i demoni, a maggior ragione può indurre alla delega il capo riottoso. Poi perché andavano allineati con gli obiettivi della formazione anche i sistemi di incentivazione del personale, quelli di selezione dei capi e i sistemi informativi aziendali. Tutti cambiamenti che si avviarono ma richiesero anni per raggiungere una buona coerenza tra loro. Infine perché i vertici di tutte le funzioni, i top manager di allora, con il loro comportamento tendevano a perpetuare sé stessi dentro la cultura che li aveva portati al successo: erano spesso, letteralmente, di nobili origini, nelle assicurazioni italiani, distanti al limite del disprezzo dai sottoposti, consci del proprio potere come solo Paolo Villaggio, inventando Fantozzi e il suo surreale mondo aziendale, aveva saputo descrivere perfettamente. E soprattutto, erano sempre pronti a mettere in pratica il contrario di quello che volevano predicare con questo programma di formazione.

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Viene da sorridere ora a ripensare alla fatica che abbiamo fatto per convincere i manager a parlare con i loro collaboratori con l’obiettivo di offrire loro, almeno una volta l’anno, un feedback costruttivo. Trent’anni fa quella fu una vera rivoluzione culturale per una grande azienda dallo stile burocratico gerarchico e con una leadership basata sul comando e il controllo. Ma spesso si trattò, almeno all’inizio, di una rivoluzione apparente. Questo perché lo stile e i contenuti di questi colloqui, come mi dissero a distanza di poco tempo alcuni dei miei allievi che vi avevano preso parte, rimanevano coerenti con la vecchia cultura paternalistico-autoritaria, piuttosto che segnare un deciso passaggio verso stili di leadership più positivi e partecipativi.

Dopo tanto tempo, questi purtroppo non sono solo fossili di archeologia manageriale, ma tuttora viva quanto deprimente pratica in molte aziende. Ancora troppi capi infatti prediligono stili di leadership aggressivi e autoritari perché imitano il modello che hanno a loro volta subito, perché hanno uno scarso interesse nelle persone o perché ancora proprio non riescono a vedere la relazione tra avere persone motivate e attive e i risultati economici aziendali positivi. Nel passato questo stile veniva passivamente accettato e difficilmente le persone si aspettavano una relazione diversa con il proprio capo. La centralità della persona non era un valore allora molto diffuso.

Si dava  per scontato che la motivazione delle persone fosse primariamente, se non unicamente, determinata da un unico fattore estrinseco, i soldi. L’aspetto economico sotto forma di incentivi, una tantum, benefit o bonus, era percepito come l’unico «grande motivatore». Credere, come allora, che la motivazione di un collaboratore necessaria per produrre uno sforzo eccezionale in termini di impegno, creatività e intelligenza possa essere sostenuta semplicemente da un riscontro economico, è tanto errato quanto diffuso.

Altri aspetti della motivazione sono stati ignorati per anni, semplificando al massimo i problemi di un capo, ma inibendo lo sviluppo di una cultura manageriale più articolata ed efficace.

Oggi forse è arrivato il momento nel quale questi errori vanno rapidamente corretti, se si vogliono evitare le conseguenze negative che una quantità crescente di risultati di ricerca, così come i racconti basati sull’esperienza personale delle tante persone che ancora incontro facendo formazione, sono lì a dimostrare in modo inequivocabile.

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Le organizzazioni hanno bisogno di veri leader, capaci di portare con sé i membri del proprio team e aiutarli a integrarsi tra di loro e con i colleghi delle diverse funzioni. Questo è possibile solo se i leader stabiliscono un rapporto di fiducia e di rispetto con le proprie persone, se accorciano la distanza di potere e dimostrano di valutare anche idee e opinioni diverse dalle proprie. Questa forma di leadership aiuta a creare un’organizzazione flessibile e resiliente nonostante un ambiente estremamente instabile e non lineare.

Per questo imparare ad avvicinarsi a una generazione diversa dalla nostra, saper motivare e ispirare persone giovani capendo i loro valori e le loro aspettative per quanto estranee a noi e alla nostra esperienza, è diventato un approccio indispensabile, anche se ancora poco diffuso. Costringere all’obbedienza non solo non è utile se c’è necessità, per avere successo, di un gruppo di collaboratori motivati, con competenze specifiche e complementari e capaci di utilizzarle in autonomia, ma porterà i giovani a scappare e i meno giovani a restare privi di passione e coinvolgimento. Per le ragioni che Laura Baruffaldi evidenzia in modo molto chiaro, i Millennials, i giovani talenti di età compresa tra i 18 e i 38 anni, hanno anch’essi bisogno, per essere coinvolti, di una relazione positiva con il proprio capo, a partire dal processo di feedback, che deve essere aperto e innanzitutto frequente.

I Millennials sono abituati a un feedback istantaneo, quei «pollici alzati» o like, che ricercano in tutti gli ambiti della loro vita, incluso quello lavorativo. Sono a disagio se viene loro richiesto di svolgere un’attività o se viene loro assegnato un compito, senza che questo sia costantemente accompagnato da segnali di attenzione. Il feedback, per i Millennials, non è scomodo, bensì fortemente desiderato. Vogliono conoscere le loro aree di miglioramento e, innanzitutto, in cosa sono bravi e in quali ambiti possono mettere a frutto il proprio potenziale. Discostandosi fortemente dalle passate generazioni, i Millennials non hanno timore reverenziale nei confronti dei loro capi, dell’autorità o delle persone più grandi e più esperte, come era invece tipico delle passate generazioni.

In questo libro sono ben spiegate le ragioni di tale cambiamento.

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La famosa caricatura della relazione capo-collaboratore dei personaggi descritti e interpretati da Paolo Villaggio, che abbiamo già ricordato e che ha fatto divertire molto le persone della mia generazione, era basata sull’umiltà vera o solo apparente, appresa fin da piccoli come unico modo per farsi strada nella vita. Per anni siamo rimasti fermi a una relazione tra capo e subordinato formale e poco collaborativa. Una relazione nella quale al collaboratore sembrava fosse necessario mettere una museruola per impedire che si esprimesse in modo assertivo. La maggior parte delle persone in azienda non conosce il significato di questa parola: assertività, e si stupisce quando scopre che una comunicazione diretta, aperta e trasparente può migliorare le nostre relazioni piuttosto che distruggerle. 

E' difficile modificare lo stato attuale di disengagement generalizzato. Ancora più difficile è attrarre e trattenere in azienda giovani con talento, motivazione e ambizione come i Millennials. Per questa generazione, come spiega bene Laura Baruffaldi, i singoli lavori rappresentano semplicemente dei trampolini verso un auto-miglioramento continuo. Trattenere un Millennial significa creare una relazione di forte attaccamento all’azienda, al capo e ai colleghi – e proprio al manager va attribuito il compito di instaurare tale rapporto.

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Se vogliamo creare ambienti di lavoro che attraggano Millennials e che favoriscano il loro engagement (e, come detto, l’engagement anche di coloro che si sono demotivati negli anni), ci vuole un’iniezione di forte positività e un rinnovato stile di leadership, una leadership positiva! Con il termine positivo si fa riferimento a una leadership che sceglie di sostenere il buono piuttosto che limitarsi a criticare e correggere il negativo nei propri collaboratori.

Si tratta di una visione piena di ottimismo, che osserva, sviluppa e protegge ciò che di positivo c’è nelle nostre aziende, come la forza dei nostri collaboratori, la loro capacità di apprendimento e la loro motivazione. Allo stesso tempo non si tratta però di uno stile di gestione «buonista», basato su un ottimismo irrealistico che nega o evita gli aspetti negativi e disfunzionali dell’organizzazione e delle attività delle proprie persone. Proprio come spiega l’autrice di questo libro, coinvolgere e appassionare i Millennials agli obiettivi aziendali è più facile se si punta sulle loro forze e potenzialità, dando fiducia e autonomia. La leadership positiva di cui stiamo parlando è una parte integrante del sapere manageriale, non sostituisce la conoscenza di base delle competenze necessarie per una buona gestione aziendale (come la definizione della strategia e degli obiettivi, l’assessment dei propri collaboratori e feedback ecc.), ma piuttosto aggiunge una visione positiva delle persone e un approccio diverso alle soluzioni dei problemi. Anche la figura del leader è «positiva», nel senso che risulta in una combinazione di ottimismo e sincerità e di integrità intellettuale ed etica.

L’azienda che investe nello sviluppo di leader capaci di gestire con un approccio positivo punta alla devianza positiva, consapevole che nel mondo della competizione globale vince solo l’eccellenza. Ogni leader deve chiedere a se stesso, e a tutti i propri collaboratori, un impegno notevole che appunto eccede la norma, per garantire massima efficacia e qualità. Dovendo porre una forte attenzione all’integrazione e alla collaborazione nei team e, di conseguenza, alle relazioni, oggi più che in passato è richiesto a un leader di basare la collaborazione sul rispetto e sulla fiducia interpersonale.

Abbiamo bisogno di leader positivi per dare un impulso alle aziende e attrare e trattenere i Millennials.

(Beatrice Bauer è Associate Professor of Practice del Leadership, Organization and HR Knowledge Group di SDA Bocconi School of Management, con trentennale esperienza nella progettazione e coordinamento di corsi aziendali per lo sviluppo di competenze di leadership funzionali ai cambiamenti sociali e organizzativi in atto. In particolare, visto il suo background multiculturale, si è occupata di grandi aziende multinazionali in Italia ed all’estero)
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