Pagine & numeri

Barbara Santoro

Passato, futuro, presente

Dialogo con Roberto Poli

Proponiamo di seguito in anteprima ai lettori di Economia & Management un'intervista tratta dal volume di Barbara Santoro, Pensare sostenibile, a Roberto Poli, sulle prospettive dei future studies.


Durante un intervento a una conferenza a cui era stato invitato come relatore, lei si è definito un «sociologo fallito». Perché ha usato questa espressione?

Ero un sociologo di formazione e di training, ma ci ho messo trent’anni a capire perché non mi riusciva di essere un sociologo come gli altri. Non è che non abbia fatto niente nel frattempo ma ho continuato a domandarmi che cosa c’era che non mi quadrava. Quello che ho scoperto dopo trent’anni era che la sociologia che avevo studiato da giovane era totalmente orientata al passato. Non guardava avanti, perché non ne aveva gli strumenti né il desiderio, e perché il futuro veniva percepito come qualcosa di poco scientifico. È chiaro che guardare avanti richiede un rigore metodologico e di impostazione. Quando parliamo di futuro, i dati ancora non ci sono, per ovvie ragioni, quindi dobbiamo avere anche un’idea di scienza che non consideri solo ed esclusivamente quelli come base della ricerca. Una scienza orientata al dato, per definizione, è una scienza che guarda solo al passato, e il fatto stesso di voler guardare avanti e insieme avere una visione scientifica che aiuti per esempio a intercettare i problemi emergenti e a preparare, se possibile, delle soluzioni, o provare perlomeno a diminuirne l’intensità, è già un risultato, però richiede il coraggio di andare al di là dei numeri, di guardare situazioni, contesti o configurazioni che per forza di cose includono una componente di autentica incertezza.

Se vogliamo lavorare su situazioni di rischio, di incertezza calcolabile, allora vanno bene tutti gli strumenti tradizionali. Se però mettiamo al centro della nostra attenzione anche il fatto che il futuro sarà pieno di sorprese, per forza di cose, servono strumenti diversi.

 

Lei come ha scoperto gli studi sul futuro?

Gli studi di futuro li ho scoperti partecipando a una conferenza. Come spesso succede ho incontrato colleghi che facevano discorsi strani, di cui fino ad allora non avevo mai sentito parlare. Però mi ha molto incuriosito quello che stavano dicendo, e poi le cose si sono evolute in modo naturale. Ho cominciato a entrare in contatto con loro, leggere delle cose, partecipare alle loro conferenze. Ho anche, in una certa fase, organizzato quello che io chiamo un «corso clandestino», un corso cioè non riconosciuto, che non dava crediti formativi. Semplicemente erano chiacchierate offerte ad alcuni studenti che avevano desiderio o curiosità di sentirsi raccontare qualcosa di diverso o di nuovo. Era un corso forse organizzato più per me che per loro, volevo vedere se ero in grado di fare un discorso sensato, che andasse da qualche parte. Questi primi risultati sono stati molto positivi. Poi il corso è diventato un opzionale e a tappe progressive è stato riconosciuto, istituzionalizzato ed è diventato addirittura un corso obbligatorio nelle nostre lauree magistrali. Tutto ciò avveniva circa dieci anni fa.

 

Come si posiziona l’Italia rispetto agli studi sul futuro?

L’Italia vive una situazione – non credo di dire nulla di nuovo – abbastanza schizofrenica, nel senso che può godere di alcuni antesignani importanti: Aurelio Peccei, del Club di Roma, o Eleonora Masini, sociologa che ha lavorato tantissimi anni all’Università Gregoriana e che per dieci anni è stata presidente dell’Associazione Mondiale degli Studi di Futuro. Figure particolarmente significative che hanno messo in moto anche processi di cambiamento e di trasformazione non banali. Come comunità accademica e di professionisti però un’autentica visibilità non si è ancora costituita. Diciamo che il mio corso è purtroppo ancora l’unico in Italia. Per carità, mi fa piacere offrire qualcosa di diverso, però se vogliamo avere un impatto, se vogliamo che le cose assumano una veste diversa devono esserci 10, 20, 30, 40 corsi di questo tipo, affinché si formi un gruppo di figure che avranno anche idee molto diverse, ma che possono esercitare un impatto più rilevante. C’è anche una certa curiosità e voglia di acquisire metodi e strumenti ma finora avviene tutto in un modo molto disorganizzato e frammentato.

 

Se parliamo di anticipazione e sostenibilità, quale relazione c’è tra questi due termini, cioè quanto è importante per il nostro futuro sostenibile la capacità di anticipazione dei fenomeni?

Ci sono due o tre aspetti importanti, a mio parere. La prima cosa che noi diciamo quando lavoriamo con le aziende è che è indispensabile guardare avanti almeno di vent’anni. Tutti i piani strategici come vengono normalmente fatti nelle aziende, ovvero a due, tre, quattro anni, non dico che siano inutili, però non riescono, per forza di cose, a intercettare i veri cambiamenti che stanno per arrivare. Allora per elaborare un piano strategico è indispensabile anche avere coraggio, perché non fa parte della forma mentis abituale guardare molto avanti nel tempo. A volte la durezza della vita aziendale è tale per cui non si riesce nemmeno a star dietro a ciò che succede giorno per giorno e quando si ha la possibilità di proiettare lo sguardo un paio di mesi avanti si è già felici.

Il livello dei cambiamenti, le intensità delle trasformazioni, la velocità con cui stanno maturando una serie di passaggi, ci obbligano, che ci piaccia o no, a guardare avanti. Poi ovviamente dovremmo accettare tutte le approssimazioni del caso, ma all’interno di una visione, di un quadro che ci allerti su che cosa potrebbe succedere. E questa è la seconda differenza importante nel guardare avanti: non possiamo guardare al singolare, come se ci fosse un futuro già scritto. Il futuro non è scritto. Di futuri ce ne sono molti. Non sappiamo quali di questi diventerà quello vero, perché dipenderà da tante cose, comprese le scelte che noi stessi andremo a fare e quelle che faranno tutti gli altri che influenzano la realtà in cui interveniamo. L’idea del futuro come qualcosa di strutturalmente plurale è indispensabile, e anche questo è un elemento che introduce un cambiamento culturale importante nella vita delle imprese. Noi, per esempio, distinguiamo in modo piuttosto esplicito, quasi radicale, la prospettiva degli studi di futuro dallo strategic management. Perché attraverso lo strategic management, se io ti dico «devo costruire una fabbrica in Polonia per il 2025», sappiamo esattamente come arrivarci nel modo più efficiente possibile. Meraviglioso! Non c’è nessun limite o nessun problema con questo, purché nel 2025 valga ancora la pena di costruire una fabbrica in Polonia, purché non siano entrati nel mercato altri concorrenti che fanno le cose meglio di noi, purché non siano cambiate le strutture normative che in questo momento rendono appetibile l’entrata in Polonia... Purché, purché, purché! A condizioni invariate o tutto sommato abbastanza stabili, lo strategic management è lo strumento migliore che abbiamo in mano, ma il problema è proprio quello: stiamo vivendo in una situazione in cui non possiamo dare per scontato che non ci saranno cambiamenti fondamentali nelle strutture e nelle caratteristiche del mercato. Da qui l’esigenza di aprire gli occhi e tenere presente che nel futuro possiamo avere esiti enormemente diversi tra di loro.

Con tutto ciò dobbiamo continuare a prendere decisioni e quindi ci conviene costruire meccanismi decisionali che risultino vincenti in una serie di futuri possibili.

 

Tutto questo non rischia di paralizzare i manager e la governance di un’impresa?

Vedo due rischi: uno è quello che dice lei di paralizzare, il secondo è quello di prendere decisioni talmente mediane da risultare perdenti. Qui è dove i metodi dei futures studies intervengono, aiutando a costruire strategie in modo differenziato a seconda delle diverse situazioni. Faccio un esempio: immaginiamo che su un tema che ci riguarda abbiamo costruito tre o quattro scenari a venti o venticinque anni, di loro molto diversi. Il fatto stesso di averli costruiti – e questo è il passaggio fondamentale – cioè di averli resi espliciti, ci permette di vedere se per caso attraverso i diversi scenari ci sono delle invarianti che risultano comunque vincenti. Se ci sono, diventano già delle scelte preferenziali da un punto di vista strategico. Se non ho costruito gli scenari, non sono in grado di vedere se per caso quegli elementi intermedi ci sono.

Un secondo modo di usare gli scenari, è questo: supponiamo che un suo collaboratore venga da lei con una nuova idea. Come fa a testare se questa nuova idea è potenzialmente utile o meno? Se quell’idea risulta utile in tre scenari su quattro forse vale la pena implementarla. Se quell’idea risulta vincente in uno scenario su quattro, allora forse è meglio dire: beh aspettiamo, vediamo se per caso quello è lo scenario vincente, e allora a quel punto abbiamo già un semi-lavorato in casa da utilizzare al momento giusto. Questo lavoro lo si può fare solo se la fase precedente di costruzione di scenari viene fatta. Perché se non ho fatto quel lavoro non ho gli elementi per valutare questi passaggi ulteriori. Sto parlando degli scenari come di uno dei metodi che utilizziamo, ce ne sono ovviamente anche altri.

  

Quello che mi sembra evidente è che bisogna andare a vedere più scenari per avere in qualche modo una visione d’insieme per poi valutare le scelte man mano.

I diversi scenari suggeriscono posizioni strategiche molto diverse. Ci sono scenari che possono piacere o altri che non ci piacciono per niente. Ma nei due casi dobbiamo fare cose molto diverse. Dobbiamo aiutare quelli che ci piacciono a diventare più reali e fare in modo che quelli che non ci piacciono non si concretizzino. Ma se non li vediamo non possiamo fare nulla.

  

Tra l’altro questa è un po’ il punto debole di The Limits to Growth come primo tentativo di proporre un modello predittivo. Secondo lei, perché non ha funzionato? Può essere collegato a questo aspetto?

C’è un’analisi abbastanza delicata da fare su questo punto. Quello del Club di Roma è stato il primo tentativo di costruzione di un modello globale. Hanno raccolto dati per settant’anni, e poi hanno fatto un’estrapolazione di 130 anni. Qualcosa che farebbe tremare chiunque: hanno dunque avuto un coraggio enorme nel tentare una cosa del genere. Aggiungo che il libro ha avuto altre due edizioni in anni successivi, nelle quali le previsioni sono state in parte riviste, ma non in maniera così rilevante, perché nell’edizione originale non erano andati troppo lontani da ciò che poi si è verificato.

Terzo elemento da considerare è che i ricercatori che lo hanno redatto non hanno fatto una previsione ma una serie di previsioni, hanno costruito un’intera batteria di scenari, anche se poi ne hanno pubblicata solamente una frazione, perché non sarebbe stato possibile pubblicare tutto. Inoltre hanno studiato se attraverso i diversi scenari ci fossero dei risultati che si ripetevano. E hanno scoperto che, a meno di non intervenire subito con il livello di inquinamento e di uso delle risorse e delle materie prime, ci sarebbe stato un momento di crisi. Quindi anche se il dibattito sui limiti della crescita non è più così vivace come è stato negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione del volume, in realtà quello che loro hanno presentato come ipotesi è assolutamente ancora in gioco.

  

I ricercatori, penso a Donella Meadows in particolare, hanno dovuto, con grande dispiacere, riconoscere che oltre al modo di guardare al tema su una base scientifica, sarebbe stata necessaria anche una visione «più di cuore», cioè la capacità di guardare il futuro anche da un punto di vista più visionario e meno incrementale numericamente parlando. Come se, non cambiando l’approccio culturale, la capacità di immaginare e di intravedere, in realtà non ci fosse spinta che porta al cambiamento.

Direi che questo è vero per due aspetti. Uno è la costruzione di modelli, anche molto sofisticati, e lì non c’è problema. Poi però c’è tutto il tema del capire, dell’essere parte, dell’essere coinvolti, del contribuire – per quello che ognuno può – a preparare certi futuri invece di altri. E questo è un discorso completamente diverso. Che si parli di singole aziende, che si parli di scuole, che si parli di comunità, che si parli di istituzioni, i modelli da soli non sono sufficienti. Anche perché c’è un fatto culturale non banale: non siamo abituati a parlare di futuro. Non c’è quella base culturale per cui il discorso sul futuro è un discorso tanto normale quanto qualunque altro discorso che capiti di fare. Sotto questo punto di vista, una grande responsabilità è della scuola che insegna tante cose sul passato – ed è assolutamente indispensabile che lo faccia, perché è un modo per formare l’identità culturale delle persone – ma spesso senza dare alle nuove generazioni anche strumenti per immaginare, pensare e vedere il futuro. La capacità di leggere e scrivere è stata un elemento di libertà fondamentale per milioni se non miliardi di persone. È quello che ha permesso a ognuno di formarsi un’idea, quella che riteneva opportuna, oppure di raccogliere le informazioni e di comprenderle e di provare ad avere una propria posizione. La futures literacy è qualcosa di simile: significa dare a persone, comunità, istituzioni e organizzazioni la capacità di vedere, di agire con uno sguardo al futuro più esplicito. Questo è. in piccola parte, un problema tecnico, cioè di acquisizione di strumenti, ma è in gran parte un problema culturale, perché gli strumenti si imparano, ma la forma mentis è una qualità sottile che deve essere coltivata.

 

In un certo senso però, il concetto di sostenibilità sta diventando mainstream, non solo da un punto di vista politico-istituzionale, ma anche nella vita delle persone. Potrebbe essere una sorta di chiave di volta per guardare con maggiore attenzione al futuro?

Possiamo anche valutare gli scenari dal punto di vista della sostenibilità che è implicita in essi, purché si metta in chiaro: sostenibilità nei confronti di chi? Un aspetto può essere rilevante per alcuni gruppi e non per altri, per alcune situazioni e non per altre. E quando si lavora a livello aziendale in qualche modo diamo per buono che si lavora a favore di una certa realtà organizzativa e automaticamente contro altre. Questo è un punto abbastanza delicato. La sostenibilità dell’azienda X potrebbe anche voler dire la non sostenibilità o il fallimento dell’azienda Y. Questo è un aspetto ancora molto superficiale. Ce n’è uno molto più profondo. Qualunque mercato, al di là dei normali meccanismi di concorrenza, ha bisogno di un sottostante livello di cooperazione. Non esiste competizione senza prima almeno capirsi sulle regole fondamentali, quindi un certo livello di cooperazione deve prevalere sulla concorrenza dal punto di vista strutturale. Però quando si analizzano casi particolari o realtà specifiche, ovviamente ci sono anche vincoli che entrano in gioco.

C’è poi un ulteriore aspetto che forse conviene aggiungere alla componente sostenibilità: la resilienza. Perché sostenibilità va bene, ma poi come me la cavo davanti alle crisi? L’introduzione di una specifica dimensione di resilienza e quindi degli strumenti, dei modi, dei punti di vista, delle competenze che aiutano un individuo o un gruppo o una comunità a superare momenti di difficoltà o momenti di crisi, è fondamentale. Nessuno di noi è così idealista da pensare che non ci saranno momenti di crisi. È chiaro che ci saranno, è inevitabile, è parte della vita e parte dell’esperienza che ognuno di noi fa. L’importante è essere in grado di affrontare e andare avanti, sapendo che dopo saremo diversi da come eravamo prima. Questo è un aspetto che forse nel concetto di resilienza rimane un po’ più nascosto. Invece la crisi ti cambia, inevitabilmente.

  

Lei vede un’accelerazione di presa di consapevolezza? Cioè, quello che lei sta facendo, quello che stanno facendo altri magari in campi diversi, la stessa attività di ASviS che nel nostro Paese cerca di mettere a sistema in maniera trasversale lo sforzo verso obiettivi che guardino al futuro, agiscono in questa direzione?

La vedo un po’ complicata. L’Italia mi sembra un Paese molto annodato su se stesso, con tendenze divaricanti in molti contesti e con una strutturale incapacità di darsi delle regole. Mentre ci sono e rimangono delle eccellenze individuali di assoluto prestigio, il sistema Paese è molto affaticato e non mi pare di scorgere grandi speranze, per lo meno non nel brevissimo periodo. Vedo anche una ruvidezza crescente nei comportamenti di tante persone e credo sia un segno del disorientamento che vivono. Secondo me il problema fondamentale dell’Italia è, paradossalmente, di essere un Paese in cui ci sono condizioni di vita mediamente buone. Ci sono Paesi che hanno anche livelli complessivi di reddito migliori dei nostri, ma in cui la condizione media di vita è molto più faticosa. Questa però si sta trasformando in una specie di trappola: l’illusione di una condizione tutto sommato non eccessivamente faticosa, in cui si possono fare ancora diverse cose, ha infatti un po’ indebolito la fibra complessiva del Paese.

Poi ci sono la situazione politica e quella organizzativa: anche le associazioni di categoria spesso sono molto al di sotto del livello di competenza e di serietà di intervento che si dovrebbe richiedere al ruolo, anche morale, di presenza, di influenza che dovrebbero giocare, con rigore di giudizio, quando si tratti di prendere decisioni . Noto invece una certa timidezza legata a interessi immediati e una scarsa attenzione ai percorsi di medio-lungo periodo. Quindi, non sono ottimista. Anche se ci sono eccellenze individuali, alcuni cambiamenti istituzionali diventano prodromici per ulteriori possibili passaggi. Finché a livello di governance nazionale rimaniamo in uno stato di coma profondo, la vedo un po’ complicata.

 

 

Secondo lei gli SDGs e l’aver strutturato obiettivi molto ben definiti (benché non sappiamo quanto misurabili) che vanno condivisi da tutti – istituzioni, imprese, società civile –, possono fornire una direzione per orientare lo sguardare verso il futuro? Avere un unico set di obiettivi a cui tendere può contribuire a ridurre la complessità e accrescere la cooperazione fra tutte le parti?

Assolutamente sì. Disporre di indicazioni ragionevolmente chiare a livello istituzionale, soprattutto a livello di istituzioni planetarie, è sicuramente un notevole passo in avanti. Il punto, come sempre, è che queste decisioni prese a un livello molto elevato rischiano di rimanere a quel livello. Vorrei vedere l’obiettivo declinato anche dal punto di vista dell’Unione Europea, dal punto di vista dell’Italia, e anche da parte della Regione e del Comune in cui abito. Se c’è questa catena di approssimazioni progressive, magari anche qualcuno fa una piccola mossa in più e allora si può creare un contesto positivo. Non credo insomma allo strumento unico, ma credo che ci sia lavoro da fare a livello istituzionale, formativo, aziendale, organizzativo. Si tratta di interventi che richiedono strumenti, modi e tempi diversi.

Dal punto di vista del lavoro con le aziende, riscontro un grande apprezzamento per chi sa ragionare sui rischi che certe decisioni possono comportare. Spesso succede che chi prende le decisioni, proprio perché non è abituato a misurarsi su tempi medio-lunghi, semplicemente non si rende conto delle conseguenze di una serie di azioni. Quando, come -skopìa[1], lavoriamo con le aziende diciamo sempre – ed è una posizione metodologica di fondo – «noi non costruiamo scenari per voi, noi costruiamo scenari con voi». È la competenza interna all’azienda che viene mobilizzata, eventualmente modificata, eventualmente integrata. Costruire gli scenari insieme fa sì che i risultati diventino un capitale di cui l’azienda si può appropriare. In questo senso, non facciamo consulenza: costruiamo un percorso. È coaching.

In questi anni sono i diversi tipi di aziende che ci hanno chiesto di lavorare con loro: ci sono per esempio le assicurazioni, alcune imprese del settore turistico, ma anche partiti e movimenti politici che vogliono imparare «a vedere» le caratteristiche delle città in cui intervengono per capire che cosa significhino l’evoluzione dell’economia o dei trasporti o l’invecchiamento della popolazione in termini di impatto sulla loro realtà specifica.

Un intervento che per noi rimane centrale dal punto di vista strategico, anche non redditizio dal punto di vista economico, riguarda le scuole: la formazione rivolta ai ragazzi è quella che ci sta dando le soddisfazioni maggiori. Stiamo tenendo corsi di formazione per insegnanti e poi, con gli insegnanti che lo desiderano, conduciamo laboratori di futuro nelle classi. Seguiamo i docenti, monitoriamo le attività, abbiamo un kit didattico che distribuiamo agli insegnanti, con gli esercizi da fare in aula e tutta una serie di indicazioni operative specifiche. Nei nostri esercizi di futuro lo schema che applichiamo è sempre passato-futuro-presente, mai passato-presente-futuro. Prima andiamo indietro. Questo serve ai ragazzi per capire che i cambiamenti ci sono sempre stati, e non bisogna averne paura perché è una dimensione naturale della vita, e anche, direi l’unica costante. Poi si fa un salto in avanti, verso i futuri che immaginano: come si vedono a trent’anni, che tipo di lavoro pensano di fare, eccetera. Quindi si torna sul presente per mettere assieme le due visioni: in una situazione in cui è normale che avvengano cambiamenti, che cosa devo fare per prepararmi al futuro che voglio? Con un caveat importante: facciamo lavorare i ragazzi sempre su almeno due futuri. Per esempio, ho un futuro in mente: voglio avere un negozio di cappelli; per qualunque motivo, il mio obiettivo potrebbe non realizzarsi, devo allora imparare fin da subito ad avere un piano B, o secondo obiettivo, senza viverlo come fallimento. Magari l’obiettivo B, che ora vedo come piano secondario, diventerà il più produttivo. Però la cosa importante è imparare a cambiare, imparare ad adeguarsi, senza vivere questi passaggi come se fossero fallimenti individuali e personali. Imparato questo, un va per la sua strada, senza bisogno di tanto altro.

  

Per concludere, quale potrebbe essere la ricetta?

Quanto più siamo aperti e consapevoli rispetto a quello che potrà succedere, non tra uno, due o tre anni, ma tra dieci, venti o trenta, e prendiamo decisioni coerenti con ciò che stiamo vedendo, tanto più ci saremo capaci di preparare la strada non dico per il successo garantito, ma comunque per prendere decisioni meno occasionali e un po’ più robuste

 

(Roberto Poli, titolare della prima Cattedra UNESCO sui sistemi anticipanti e organizzatore, a Trento nel 2015, della prima conferenza internazionale sull’anticipazione, è docente di Previsione sociale e direttore del Master in previsione sociale presso il Dipartimento di Sociologia e ricerca sociale dell’Università di Trento)

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