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Paola Pierri

Si scrive business, si legge cultura

Claudio Magris, Joao Guimaraes Rosa e... Che Guevara: sono tre tra gli autori preferiti da Paola Pierri, ex Direttore Generale di UBM, la banca di investimento del Gruppo Unicredit. Impegnata nel mondo del non profit da molto tempo, nel 2006 è stata nominata Presidente Esecutivo di Unidea – Unicredit Foundation, dove si è concentrata prioritariamente sulle tematiche di salute pubblica in alcuni paesi dell’Africa sub-sahariana e su iniziative di inclusione sociale nei paesi dell’Est Europa. Nel 2009 Paola Pierri ha lasciato il Gruppo Unicredit per creare la Pierri Philanthropy Advisory ed occuparsi a tempo pieno di consulenza e formazione in tema di filantropia, imprenditoria sociale e finanza sociale per aziende, banche, family offices e fondazioni.

Fare carriera in banca tutto sommato è semplice. Io ci sono riuscita solo per questo, a fare carriera in Unicredito. Perché avevo una passione per la letteratura e la cultura e ho avuto la sorte di incontrare Pietro Modiano. Un intellettuale vero, prima che un banchiere, uno che sa di libri perché li legge e li ama. È un punto che ci ha sempre accomunato. I libri sono stati fondamentali nella mia vita professionale in banca, che avevo deciso di interrompere a 45 anni. Purtroppo, non ci sono riuscita e così ho chiuso a 50, avendo raggiunto il grado di Direttore Generale della banca di investimento del Gruppo Unicredit. A quel punto per me la carriera formale interna era conclusa nel migliore dei modi. Così, ho pensato di cambiare e aprirmi ad altri orizzonti. Ho fondato una società di Philanthropy Advisory, un’avventura quasi impossibile nel nostro paese, dove su questi temi c’è troppa confusione, si confonde la forma con la sostanza ma, soprattutto, si vive un complesso sociale verso la ricchezza, paradossalmente molto più che verso la povertà.

Per spiegare questo aspetto si dovrebbero tirare in ballo molte ragioni, complesse e profonde, che si riconducono a un fatto semplice: da noi l’economia non è diventata cultura. E viceversa. Anche per questo ho fondato la mia società, per combattere gli stereotipi e aiutare famiglie e imprese che vogliano fare qualcosa per gli altri a capire che la filantropia non è un tema di arbitrio o di pancia, ma di testa, di scelte e, soprattutto, di competenze. Occorrono metodologie e professionalità. Le emozioni vengono molto dopo l’intelligenza e la razionalità, quindi la cultura. La retorica sarebbe meglio che non venisse affatto.

Ma le cose sono sempre più complesse. Così, se da un lato c’è effettivamente una responsabilità sociale e crescente della ricchezza, dall’altro non c’è affatto l’obbligo di donare. Questo è un punto centrale da comprendere e far comprendere: in Italia non esiste una dialettica o una polarizzazione tra for profit e non profit, non c’è nei fatti. Piuttosto, esiste una pressione dello stato e dei corpi intermedi sul privato, un’azione che opera spesso sul senso di colpa ancora forte in una società come quella italiana. Ecco, la mia azione è rispondere «no» al messaggio subliminale «dovete pagare voi». Non per non fare la propria parte, ma proprio per farla meglio. Altrimenti si cade in un circolo vizioso che stravolge tutto, mentre se si vuole donare, se si vuole «restituire alla società», occorrono professionalità e competenza. E cultura, come dicevo, cioè conoscenza dei contenuti. Faccio solo un esempio. La venture philanthropy nel mondo è già alla terza fase teorica, un’evoluzione che nelle democrazie avanzate è in corso di ulteriore raffinamento, anche perché la materia chiama a trasformarsi continuamente. Ma in Italia questo non è noto, non si sa.

In questo percorso personale e professionale di crescita, un punto di riferimento assoluto per me è stato Claudio Magris e soprattutto il suo capolavoro, Un altro mare. Ne ho seppellita addirittura una copia in Patagonia, dove il protagonista Enrico poteva essere passato. L’altro libro che ha segnato la mia vita è senza dubbio il Grande Sertao di Joao Guimaraes Rosa. Un libro sulla solitudine e le scelte, ma anche un libro fondamentale per la microfisica del potere, l’epopea di un gruppo di banditi che insegna qualcosa di profondo: che non si diventa leader se non lo si cerca tenacemente, che non si diventa direttori generali di una banca se non lo si vuole davvero. E nonostante questo, trasformandosi ci si espone alla sorpresa, al fato imperscrutabile a cui è affidata la nostra vita.

Però, pensando al management voglio ricordare un altro libro essenziale nella mia formazione che consiglio a chiunque: I diari di Che Guevara, che possono sembrare na scelta retrò e di campo, e in effetti lo sono, ma in realtà raccontano la storia di un uomo che ha compiuto una grande rinuncia. Trovandosi così, per caso, a fare lavori difficilissimi e stranissimi insieme: il governatore della Banca Centrale, il ministro dell’Industria, oltre che il rivoluzionario di professione poi anche in Congo e in Bolivia. L’aneddoto forse non è noto a tutti: sembra che all’indomani della rivoluzione nella prima riunione di organizzazione del governo a un certo punto si chiese: «C’è un economista qui?» Di scatto Guevara alzò la mano avendo capito: «C’è un comunista qui?». E così fu nominato, seduta stante, governatore della Banca Centrale cubana.

Al di là degli aneddoti, però, nei Diari il Che fa il debrief della tragica esperienza in Congo, scrivendo dalla distanza temporale e geografica della Cecoslovacchia pagine che dovrebbero essere lette da chiunque sia a capo di persone chiamate a prendere decisioni di impatto sociale. «Ho fallito», conclude Guevara, «perché ero troppo soddisfatto. E avevo le due cose con cui si può sopportare tutto: il fumo e la letteratura». Parole che dovrebbero far pensare ognuno di noi.

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