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2014/5

Gianni Canova Severino Salvemini

Saving Mr. Banks La tata volante e il papà di Topolino

Un imprenditore dello spettacolo – Walt Disney – vorrebbe acquistare i diritti di un bestseller – Mary Poppins – per farne un film. Ma l’autrice – Pamela Lyndon Travers – non si fida, resiste e non firma l’accordo. Un delizioso film di John Lee Hancock racconta la lunga e difficile trattativa per la gestazione del film sulla tata che arriva dal cielo con l’ombrello volante. E offre preziose indicazioni sul funzionamento dei processi di negoziazione e sulle qualità imprenditoriali di uno dei grandi protagonisti della società dello spettacolo.

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Saving Mr. Banks

Regia: John Lee Hancock

Interpreti: Tom Hanks,

Emma Thompson

USA, 2014

 

Anche i film sono artefatti industriali. Al pari di tanti altri oggetti di consumo, sono il frutto di un progetto, di un’attenta valutazione del rapporto fra costi preventivabili e ricavi presumibili, spesso anche di una negoziazione fra istanze progettuali o strategie industriali non necessariamente coincidenti. Ce lo ricorda con garbo – e anche con un pizzico di humour – il film di John Lee Hancock Saving Mr. Banks, che racconta con accuratezza di particolari il lungo, tormentato e problematico processo decisionale e creativo che fu a monte della realizzazione di una delle pellicole di maggior successo del cinema degli anni sessanta: Mary Poppins, prodotto da Walt Disney a partire da un fortunato bestseller della scrittrice inglese (ma di origini australiane) Pamela Lyndon Travers.

Campione di incassi nel 1964, il film sulla simpatica tata che arriva dal cielo con l’ombrello volante e con la borsa magica fu il frutto di un processo di gestazione particolarmente faticoso: peripezie, ripensamenti, decisioni, indecisioni, reticenze, compromessi, cedimenti. Si tratta di passaggi che abitualmente condizionano la messa a punto produttiva di qualsiasi altro grande progetto industriale, ma che qui vengono enfatizzati dalla personalità dei due protagonisti: una scrittrice burbera e scontrosa, che vive in un suo mondo chiuso, autarchico e solitario, e che non ha nessuna intenzione di cedere i diritti per la trasposizione cinematografica del suo bestseller, e un produttore – Walt

Disney – che è all’apice del successo e che vuole assolutamente fare un film da Mary Poppins, sia perché con l’intuito da imprenditore dello spettacolo fiuta le straordinarie potenzialità del libro, sia perché quel libro è il prediletto delle sue due figlie e lui ha promesso loro, quando ancora erano piccole, di farne un film. Ha avuto bisogno di vent’anni per realizzare la sua promessa. E il film che racconta come ci è riuscito diventa emblematico dei processi di negoziazione che spesso sono all’origine di tanti prodotti industriali. Ne discutono Severino Salvemini e Gianni Canova.

 

G.C. Il film è di fatto la storia di una trattativa. Da un lato c’è un soggetto (Disney) che vuole acquistare, dall’altro c’è un altro soggetto (la Travers) che non vuole vendere. L’uno assedia, l’altra resiste. L’uno offre, l’altra rifiuta. L’uno rilancia, l’altra pone le sue condizioni. Si sta parlando della cessione dei diritti di un libro di successo, ma i meccanismi della negoziazione sono più o meno gli stessi che si mettono in moto in qualsiasi trattativa commerciale e/o industriale.

 

S.S. È vero. Il ping pong fra i due è impeccabile. Disney ricorre a molti diversi campi di negoziazione: prova la strategia del braccio di ferro, poi si ammorbidisce e lascia intravvedere alla Travers soluzioni più integrative, quelle dove ambedue i contendenti possono ricavare valore aggiunto (win-win). Ma lei resiste, l’idea di vendere la sua creatura profondamente british al papà di Topolino le fa orrore, e sembra irremovibile…

 

G.C. … sembra, ma non lo è. Noi sappiamo che ha bisogno di denaro. Il suo agente gliel’ha detto in modo molto esplicito proprio all’inizio del film, quando le ha ricordato che le vendite del libro (pubblicato quasi trent’anni prima, nel 1934) sono esaurite, e che di conseguenza sono terminati anche i pagamenti dei diritti d’autore. All’orizzonte c’è il fantasma della bancarotta.

 

S.S. Ma lei, pur consapevole della sua difficile situazione economica, non cede, e pone anzi al suo interlocutore infinite condizioni anche solo per continuare la trattativa. Nel timore che Disney possa rovinare il suo capolavoro, gli impone infatti per contratto di non usare canzoni né animazione, di evitare le parole inventate, il sentimentalismo e il colore rosso.

 

G.C. E Disney è molto bravo perché non discute le condizioni di Pamela, anche quando gli sembrano inutili, o incomprensibili. Le accetta, le mette in atto. Quanto lei è arcigna e altezzosa, tanto lui è affabile e gentile. Per quanto lei lo esasperi, lui non dà a vedere la sua esasperazione. Agisce sempre con il sorriso, e ostenta una sicurezza, una gentilezza e anche una pazienza davvero notevoli.

 

S.S. Hai ragione. Ma è bene sottolineare che non è né con la pazienza né con la gentilezza che Disney alla fine raggiunge il suo obiettivo. È con l’intuito. Con la capacità di penetrare dentro il cuore e dentro la testa dell’interlocutore. Disney intuisce che Pamela nasconde un segreto. Che Mary Poppins non è stato scritto per salvare i bambini protagonisti ma il loro padre, Mr. Banks in persona, bancario in crisi come lo era il padre dell’autrice. Disney capisce che il romanzo, in fondo, è un grande atto d’amore da parte della scrittrice nei confronti di suo padre, un uomo apparentemente affettuoso e incoraggiante, in realtà fragile e vulnerabile. Così, d’istinto, lui la va a trovare a Londra, e quando ormai l’accordo sembrava impossibile, a sorpresa le rivela qualcosa della sua infanzia. Confessa che anche la sua è stata un’infanzia difficile e tutt’altro che felice. In questo modo fa scattare immediatamente una sorta di transfert per cui i due si sentono emotivamente vicini. Ed è proprio questa vicinanza emotiva, o questa contiguità esperienziale, a indurre Pamela ad accettare la proposta di Disney.

 

G.C. Non dimentichiamo che Disney, nella prima metà degli anni sessanta, era all’apice del successo: tanto il cinema d’animazione quanto il parco dei divertimenti (Disneyland, aperto giusto pochi anni prima, nel 1955, su un terreno a circa trenta chilometri da Los Angeles) erano percepiti come pionieristiche avventure della nascente società dello spettacolo. Se è vero che, da un lato, Disney tendeva a edulcorare tutto (“Basta un poco di zucchero / e la pillola va giù…”), dall’altro il film ci mostra anche la sua pervicacia, la sua tenacia, la sua sensibilità e intelligenza. Sono queste le doti imprenditoriali che gli consentono di vincere.

 

S.S. Disney utilizza ogni risorsa a disposizione per convincere Pamela a firmare. A volte delega la trattativa al suo team creativo (i musicisti fratelli Sherman e gli scenografi), altre volte incalza lui in prima persona. È un venditore di sogni (“Se puoi sognarlo, puoi farlo!”) e si autoattribuisce il compito di “mettere un po’ d’ordine nell’immaginazione”. Ma alla fine vince – come capita quasi in ogni negoziato – ottenendo la fiducia della sua interlocutrice. È quando lui le dice, guardandola negli occhi, “Si fidi di me!”, che di fatto riesce a convincerla a lasciar trasformare il mondo di Mary Poppins in un film.