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2012/6
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Oramai è muto
Scarica articolo in PDFSi sono sdoganati in sette. Parlo dei paesi che ai recenti giochi olimpici di Londra hanno ottenuto la prima medaglia della loro storia. Non si è trattato di successi marginali. Grenada ha cominciato addirittura con l’oro. Gli altri sei paesi, tutti, hanno vinto l’argento. Sono Cipro, Botswana, Gabon, Guatemala e Montenegro. Restano settantasette Stati che ancora aspettano il primo podio olimpico. Moltissimi sono di recente costituzione ma altri, presenti da sempre, sono ancora a secco. In testa a questa patetica classifica c’è il Principato di Monaco con ventinove partecipazioni.
A zero medaglie rimane anche la Somalia. A Pechino aveva inviato due partecipanti: un giovane arrivato trentasettesimo nei cinquemila metri e una ragazza di diciassette anni, Samia Yusuf Omar. Alla cerimonia di inaugurazione toccò a lei portare con orgoglio la bandiera bianca e azzurra della sua terra d’origine. Dimenticava il contesto che l’aveva costretta ad allenarsi quasi quotidianamente sulla pista del centro olimpico di Mogadiscio, sotto i bombardamenti, senza istruttore. Aveva sfidato il potere locale, che non vedeva molto di buon occhio l’attività sportiva e ancor meno una donna che la praticasse. Suo padre, agricoltore, era stato ucciso da un colpo di mitraglia. La madre, fruttivendola, restò con sei figli da mantenere.
Quando Samia si presentò in pista per correre i duecento metri vestiva una maglietta bianca con inserti azzurri e una calzamaglia nera fin sotto il ginocchio. Una fascia bianca teneva lontani dagli occhi i suoi riccioli neri. Si presentò in pista con le scarpe chiodate. Non le aveva mai viste. Gliele aveva regalate un’atleta sudanese. In pista, nella quinta batteria, iniziò la sua avventura. Concluse la sua corsa in 32 secondi e 16 centesimi. Aveva battuto il suo record personale. La batteria la vinse la giamaicana Veronica Campbell, che diventerà campionessa olimpica, in 21 secondi e 74 centesimi. Quando la vincitrice tagliava il traguardo, Samia aveva ancora settanta metri infiniti da percorrere. Ottantamila persone presenti allo stadio, consapevoli del sogno di quella ragazza che, manifestando un vero spirito olimpico, voleva partecipare e confrontarsi con il meglio del mondo, si alzarono in piedi per applaudirla.
Sognava di partecipare anche alle Olimpiadi di Londra. Mogadiscio non prometteva più nulla. Aveva espresso il desiderio di venire in Italia a cercare un allenatore. Raggiunse la Libia a piedi, con alcuni compagni di avventura, tutti somali ed eritrei. Affidarono le loro speranze a un trasporto precario. Proprio durante il viaggio, il 15 marzo 2012, Samia compiva ventun anni. Il gommone in cui erano stipate troppe persone ebbe un’avaria e la capitaneria del porto di Lampedusa raggiunse gli esuli e li portò in salvo. Quattro di loro, nonostante le cure prestate, non sopravvissero agli sforzi sostenuti. Sono stati sepolti, alla vigilia di Pasqua, nel cimitero locale, senza nomi. Una delle persone decedute era Samia, incinta di quattro mesi. A Londra non cercava più le Olimpiadi ma un futuro per lei e per il figlio che attendeva. Il suo sito Facebook, nella mappa geografica, indica ancora Mogadiscio e Londra. Ma oramai è muto.