Dall'ultimo numero

Fabrizio Perretti

Goodbye lavoratori?

Presentiamo ai nostri lettori l’introduzione del direttore Fabrizio Perretti al Dossier del n.3/2019 di Economia & Management in uscita a fine agosto.

Questo Dossier è dedicato al lavoro, più precisamente ai lavoratori all’interno delle imprese e delle organizzazioni in senso lato. «Lavoratori» è un termine quasi desueto che, in modo analogo a quanto avvenuto con «operai», sta ormai scomparendo dal lessico manageriale. Al suo posto si parla di «risorse umane» e di «capitale umano», non più di «dipendenti» ma di «collaboratori». Non ci troviamo però di fronte a un semplice cambiamento linguistico, bensì a una frattura epistemologica che riflette una profonda trasformazione avvenuta nelle imprese e nei processi che regolano la selezione e l’accesso dei lavoratori all’organizzazione, i loro percorsi di carriera e di uscita.

Tale trasformazione si è manifestata in un contesto di attenzione ossessiva all’adattamento, al cambiamento, alla flessibilità, con una varietà di innovazioni manageriali che possiamo cercare di articolare intorno ad alcune idee chiave: aziende snelle che lavorano in rete con una moltitudine di soggetti e un’organizzazione del lavoro in team o per progetti, orientata ai risultati e alla soddisfazione del cliente, nella quale, più che attraverso regole e gerarchie, diventa fondamentale la mobilitazione generale delle risorse umane grazie alla visione d’insieme dei loro leader.

L’orientamento ai singoli progetti, e al conseguimento dei rispettivi obiettivi, presenterebbe il vantaggio di offrire criteri chiari e affidabili per misurare le performance sulle quali fondare l’organizzazione delle carriere. Non cioè attraverso «criteri soggettivi», che spalancherebbero le porte al nepotismo e ai favoritismi, ma su un «giudizio impersonale» basato sulla cosiddetta «meritocrazia»[1], che premia chi raggiunge gli obiettivi, e non più legato al grado di anzianità, che ricompensa sì la fedeltà, ma anche la rigidità.

In questo scenario, la carriera è più una progressione di progetti, in cui le persone passano cioè da un progetto all’altro, e la riuscita in una data iniziativa permetterà loro di partecipare ad altre più interessanti. Ogni progetto, essendo occasione di molteplici incontri, offre la possibilità di farsi apprezzare e dà quindi maggiori probabilità di essere chiamati per un altro incarico. Ogni progetto, essendo per definizione diverso, nuovo, innovativo, si presenta come un’opportunità di imparare e di arricchire le proprie competenze, acquisendo così ulteriori risorse per trovare altri ingaggi[2]. Ed è qui che si comprende il cambiamento linguistico da «risorse umane» a «capitale umano», cioè da soggetti che non vengono più intesi passivamente come risorse produttive da sfruttare o da ricombinare in nuove configurazioni progettuali, bensì come soggetti attivi che sono costantemente costretti ad accumulare competenze, pena la loro svalutazione e la loro esclusione.

Si tratta di un processo di accumulazione in cui le competenze richieste sono sempre più spesso di «saper essere», non solo di «sapere» o di «saper fare»: in cui si chiede cioè alle persone di valorizzare le dimensioni affettive e relazionali (le cosiddette soft skill) e di fornire alle aziende non solo competenze tecniche, ma tutte le loro capacità, anche le più personali, come il senso dell’amicizia o l’emotività. Si tratta cioè di un processo di accumulazione non solo incessante, senza fine, ma anche senza confini.

In un mondo senza frontiere, in cui l’azienda è sempre più informale e virtuale, nella quale i vincoli gerarchici sono molto attenuati e l’istituzione non manifesta più la propria presenza attraverso segni tangibili e una simbologia del potere, come viene garantita la lealtà dei lavoratori? Il rischio dell’organizzazione flessibile sta infatti nella maggiore facilità per gli attori dell’impresa di fare il proprio gioco, badando all’interesse personale, senza tenere conto di tutte le altre persone che hanno dato un contributo fondamentale perché la loro azione fosse coronata dal successo

Nel caso del lavoro, inoltre, ci troviamo sempre più spesso di fronte a una situazione in cui i salari pagati dalle imprese tendono a prescindere dai costi e dagli investimenti necessari per lo sviluppo di questa nuova classe di lavoratori, sia a monte (istruzione, formazione, mantenimento durante i periodi di inattività e di riposo) sia a valle (ricostituzione delle forze, logoramento e invecchiamento), senza contare gli effetti negativi dell’intensificazione del lavoro sulla salute fisica e mentale. Vi sono cioè dei costi che non vengono totalmente coperti dalle imprese, ma che sono sostenuti dagli stessi lavoratori e dalla società nel suo complesso.

Di fatto il tema del lavoro nelle imprese ripropone costantemente il problema del difficile equilibrio tra il benessere dell’individuo e il perseguimento della razionalità organizzativa, in termini di efficacia e di efficienza. La ricerca dell’efficienza organizzativa, anche se irrinunciabile, ha infatti dei costi in termini di felicità umana, e i problemi di misurazione dell’efficacia e dell’efficienza comportano tali e tanti effetti controproducenti da essere problemi intrinsecamente irrisolvibili o da dare luogo solo a soluzioni parziali e momentanee[3]. A prescindere dal fatto che l’impresa non dovrebbe necessariamente costituire l’ambito principale e totalizzante in cui realizzare la propria felicità individuale[4], non è vero che tutto ciò che aumenta la razionalità debba essere necessariamente causa di infelicità e non è vero che tutto ciò che aumenta il livello di felicità debba produrre inefficienza. Ma in ogni organizzazione vi è un momento in cui questa relazione cessa di essere valida: non tutto il lavoro svolto può essere ben retribuito o comunque gratificante. Per alcuni la soluzione è sostituire con l’automazione l’attuale capitale umano, che è ancora troppo umano. Ma anche questa è una risposta parziale. La componente umana – qualunque sia la dimensione che avrà in futuro – non dovrebbe comunque mai essere considerata un semplice attributo del capitale. Il rischio è infatti quello di vedere nei lavoratori un capitale troppo poco umano. Si tratta di una sfida, non solo per le imprese.

 



[1] Si veda M. Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Roma-Bari, Laterza, 2019.

[2] Si veda a questo proposito L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Milano, Mimesis, 2014.

[3] Si veda E. Gross, A. Etzioni, Organizzazioni e società, Bologna, il Mulino, 1985.

[4] Si veda E. Cabanas, E. Illouz, Happycracy, Torino, Codice, 2019.

cover 3 2019