Archivio

24/09/2019 Gianmarco Ottaviano

La guerra dei dazi

I danni più duraturi che la guerra commerciale sta facendo all’economia mondiale non vengono necessariamente dai maggiori dazi, ma dall’incertezza che sta creando sulle «regole del gioco» sancite dei trattati internazionali. Questi danni potrebbero permanere a lungo anche dopo l’eventuale fine delle ostilità.

«Quando un Paese come gli Stati Uniti sta perdendo molti miliardi di dollari con virtualmente tutti i Paesi con cui è in affari, le guerre commerciali sono buone, e facili da vincere». Con queste parole il 2 marzo 2018 il presidente americano Donald Trump dichiarava via Twitter la cosiddetta «guerra dei dazi» (cioè delle tasse sulle importazioni) tra gli Stati Uniti e il resto del mondo. Il riferimento era al saldo negativo tra esportazioni e importazioni americane, che in valore assoluto nell’ultimo decennio non è mai stato inferiore ai 400 miliardi di dollari e, proprio nel 2018, ha toccato la cifra record di 600 miliardi.

Questo risultato negativo nasce da un buon avanzo negli scambi di servizi con il resto del mondo e un molto maggiore disavanzo negli scambi di beni. Dagli altri Paesi gli USA acquistano soprattutto beni in cambio di servizi, ma, poiché comprano più di quello che vendono, continuano ad indebitarsi. E lo fanno soprattutto nei confronti della Cina. Dal 2001, anno in cui i cinesi sono entrati nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) e hanno quindi potuto godere dell’accesso privilegiato ai mercati degli altri Paesi membri, il disavanzo commerciale degli Stati Uniti nei confronti della sola Cina è passato in valore assoluto da circa 100 a più di 400 miliardi di dollari. In linea di principio, indebitarsi nei confronti dell’estero non dovrebbe essere considerato né un bene né un male. Che sia l’uno o l’altro dipende infatti da che cosa il Paese debitore fa dei soldi altrui. Non è però questo il punto, perché per l’amministrazione Trump un notevole disavanzo commerciale non va bene a prescindere.

A partire dal 2018 al tweet di Trump sono seguiti i fatti. Tra dazi introdotti o minacciati sulle importazioni cinesi, all’inizio di settembre 2019 la quasi totalità dei flussi di commercio dalla Cina verso gli Stati Uniti è ormai diventata soggetta a un qualche tipo di restrizione. Viceversa, per rappresaglia, la quasi totalità dei flussi commerciali dagli Stati Uniti alla Cina subisce oggi un simile trattamento restrittivo. Se si guarda indietro nel tempo, si notano però due aspetti importanti. Il primo è ovvio: la guerra dei dazi ha effettivamente reso gli scambi internazionali più difficili. Il secondo lo è meno rispetto alla percezione diffusa: anche prima della guerra dei dazi, di restrizioni al commercio ne erano già state introdotte parecchie, soprattutto a cominciare dalla crisi finanziaria del 2008, anche sotto l’amministrazione Obama. Il ritorno al protezionismo non è un’invenzione di Donald Trump.

Non solo la guerra dei dazi non è un’invenzione di Trump, ma a ben guardare ha molto meno a che fare con i dazi di quello che si crede. Per quanto riguarda le grandi misure protezionistiche introdotte dai vari Paesi dopo la crisi, tra quelle «meno grandi» (che riguardano valori di commercio tra i 10 e 100 miliardi di dollari) i dazi pesano per circa il 20 per cento. Ma circa 20 per cento è anche il peso dei sussidi alle imprese nazionali che competono con le importazioni dall’estero, mentre circa 30 per cento è il peso degli interventi di sostegno all’export, tra cui i sussidi alle imprese esportatrici. Nel caso delle misure protezionistiche «più grandi» (che riguardano valori di commercio superiori ai 100 miliardi di dollari), il peso di quelle a sostegno degli esportatori è addirittura dell’85 per cento, mentre dazi e sussidi alle attività che subiscono la concorrenza delle importazioni pesano entrambi solo circa del 5 per cento. Sono quindi i vari interventi di «doping» dei Paesi a vantaggio dei propri esportatori a fare la parte del leone negli attuali conflitti commerciali globali. Il più importante ritorno al protezionismo da parte degli Stati Uniti dalla Grande Depressione degli anni Trenta del secolo scorso è motivato dalla convinzione che gli altri Paesi (e soprattutto la Cina) pongano in atto politiche di sostegno delle proprie imprese che falsano la libera concorrenza nei mercati globali.

Siamo di fronte al tramonto degli accordi internazionali di libero scambio? Non necessariamente. Mentre Donald Trump è quotidianamente impegnato a innervosire con i suoi tweet a turno tutti i suoi principali partner commerciali (dalla Cina all’Unione Europea, dall’India al Canada e al Messico), gli altri Paesi hanno infatti cominciato a dedicarsi con rinnovato entusiasmo alla produzione di una nuova generazione di accordi preferenziali, volti a rinsaldare i loro legami economici reciproci.

Nel caso del Vecchio Continente, a oggi l’Unione Europea ha accordi con circa 35 Paesi. L’ultimo è quello entrato in vigore con il Giappone nel febbraio 2019. In aggiunta, l’Unione ha molti altri accordi in diverse fasi di completamento. Con poco meno di una trentina di Paesi ha già concluso con successo la fase di negoziazione dei relativi accordi commerciali. Molti dei Paesi coinvolti sono africani, ma il fiore all’occhiello è la recente conclusione nel giugno 2019 dei negoziati con il Mercosur, il mercato comune dell’America meridionale, che coinvolge il Paraguay e l’Uruguay, ma anche l’Argentina e soprattutto il Brasile, la maggiore potenza economica sudamericana e un membro del circolo ristretto dei «grandi mercati emergenti» (di cui fanno parte colossi come Cina e India). Questi accordi attendono la firma delle controparti e la successiva ratifica interna dei Paesi firmatari. A essi se ne aggiungono molti altri già firmati e in attesa di ratifica, che coinvolgono Singapore e Vietnam, un gran numero di Paesi africani, i Caraibi, la quasi totalità dei Paesi del Centroamerica, quasi tutto il Sudamerica fuori dal Mercosur e soprattutto il Canada. Nell’insieme l’UE ha quindi accordi commerciali in vigore o in cantiere con più di cento Paesi in tutto il mondo.

La ragione di questa iperattività europea è che il commercio internazionale ha bisogno di certezza nelle «regole del gioco». Gli accordi internazionali e il loro rispetto sono il modo migliore per creare tale certezza. Dal marzo 2018 molto si è detto e scritto sugli «effetti del primo ordine» della guerra dei dazi dichiarata dagli Stati Uniti contro il resto del mondo, cioè sugli effetti causati da tasse più alte sulle importazioni americane. Molto meno si è detto e scritto sugli «effetti del secondo ordine» della strategia neo-protezionista del presidente americano, cioè sugli effetti dell’incertezza causata dalle accelerazioni, dalle sterzate e dalle inversioni di marcia della sua amministrazione in materia di commercio internazionale.

Per capire quanto questi «effetti del secondo ordine» possano essere importanti, è utile analizzare che cosa è successo dopo che Stati Uniti e Cina sono diventati «amici» in occasione dell’ingresso della Repubblica Popolare Cinese nell’OMC l’11 dicembre 2001. La maggior parte dello straordinario aumento delle importazioni americane dalla Cina è avvenuto proprio a partire da quella fatidica data. Verrebbe quindi naturale pensare che sia stata la riduzione dei dazi statunitensi, di cui ha potuto godere la Cina entrando nell’OMC, a causare la crescita delle importazioni statunitensi.

In realtà le cose non sono andate così. E il motivo è che i dazi applicati dagli Stati Uniti alle importazioni cinesi sono rimasti pressoché invariati dopo l’ingresso della Cina nell’OMC. A stimolare il commercio cinese, infatti, non è stata tanto la riduzione dei dazi quanto la riduzione dell’incertezza sui dazi tra i due Paesi. È vero che, in base alla «clausola della nazione più favorita» (CNPF), nessuno Stato membro dell’OMC può discriminare un altro Stato membro, imponendo a quest’ultimo dazi più alti che agli altri Stati membri. Tuttavia, gli Stati Uniti già applicavano volontariamente alla Cina tale clausola dal lontano 1980. L’aspetto cruciale è che, essendo una concessione, in qualunque momento gli Stati Uniti avrebbero potuto cancellarla. A promuovere gli scambi tra Cina e Stati Uniti dopo il 2001 non è stato tanto l’esercizio effettivo della CNPF, quanto la certezza che tale esercizio non poteva più essere sospeso unilateralmente da una delle due parti.

La guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina non potrà che produrre nuove tensioni nei mesi a venire man mano che Donald Trump si addentrerà nell’ultimo anno di campagna elettorale per le elezioni presidenziali americane del novembre 2020. Non è da escludere che anche l’Unione Europea finirà per esserne ulteriormente coinvolta. Tuttavia, i danni più duraturi che Donald Trump sta facendo all’economia mondiale potrebbero non venire necessariamente dai maggiori dazi, ma piuttosto dall’incertezza creata sulle «regole del gioco» sancite dai trattati internazionali. Per questo motivo, i costi dell’incertezza causata dalla guerra dei dazi potrebbero permanere a lungo anche se dovesse presto scoppiare la pace.

(Gianmarco Ottaviano è Professore di Economia Politica presso l’Università Bocconi, dove è titolare della Achille and Giulia Boroli Chair in European Studies; l’articolo riprende alcune riflessioni sull’argomento apparse sul Sole 24 Ore negli ultimi mesi)

iStock-1085324448