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Messaggi da Hong Kong
L’hanno chiamata l’ultima battaglia di Hong Kong. 2 milioni di manifestanti su un totale di 7 milioni di abitanti, praticamente un abitante su tre è sceso in strada per opporsi all’approvazione di una legge che avrebbe permesso l’estradizione verso la Cina in caso di reati puniti con un minimo di sette anni. E hanno vinto: la discussione in aula è stata rimandata a data da destinarsi. Ma appunto, la guerra per mantenere la propria «hongkonghesitudine» non inizia oggi né è destinata a esaurirsi nel breve periodo. In verità la parola fine è già programmata per il 2047, quando l’ex colonia britannica perderà definitivamente tutta l’autonomia che gli è stata garantita nel 1984 dall’accordo tra Margaret Thatcher e Deng Xiaoping: Hong Kong sarebbe tornata alla Repubblica popolare, ma gradualmente, secondo la formula che poi è diventata universalmente nota come «un Paese, due sistemi». Una sorta di mini-costituzione a garantire libertà di espressione e giusti processi, ma soprattutto con un sistema pluripartitico ed elezioni a suffragio universale. Promessa quest’ultima mai mantenuta: le elezioni sono sì libere, ma i candidati devono essere approvati da Pechino.
Difficile la relazione con la madre patria. Qui Sun Yat-sen, colui che a cui si deve la nascita della Repubblica cinese ha frequentato l’università di medicina e negli anni Novanta dell’Ottocento lottò contro l’occupazione coloniale. È qui che si svilupparono le società segrete che portarono alla fine dell’Impero nel 1911. E sempre qui si rifugiarono i comunisti prima di arrivare al governo, poi i borghesi che fuggivano dalla furia della Rivoluzione culturale, e i dissidenti in genere. Una terra di libertà che da alcuni punti della Cina continentale si può raggiungere persino a nuoto. Nel 1978, ancora sotto la dominazione britannica, gli imprenditori di Hong Kong investivano nella Cina che si apriva al mercato. Di fatto sono i loro soldi che l’hanno trasformata in fabbrica del mondo. Tanto che quando la colonia fu restituita all’ex Impero di mezzo nel 1997, si diceva che il capitalismo di Hong Kong avrebbe cambiato la comunista Cina più di quando l’influenza di Pechino si sarebbe fatta sentire sull’ex colonia britannica. Ma così non è stato.
Soprattutto da quando Xi Jinping è assurto al vertice di quella complessa piramide politica in cui Stato e Partito si sovrappongono, chi pensava che Hong Kong sarebbe rimasta un’enclave immune dal controllo totalizzante della «Capitale del Nord» ha dovuto ricredersi. Già nel 2012 gli studenti cominciarono a protestare perché il governo centrale aveva imposto che a scuola si studiasse su libri di storia che mettessero in buona luce il Partito Comunista Cinese e il modello politico che aveva costruito. Nel 2014 il cosiddetto movimento degli ombrelli che bloccò la città per 79 giorni protestava proprio contro la decisione del governo cinese sul fatto che la popolazione avrebbe potuto scegliere il proprio leader, ma solo votandolo tra una lista di nomi decisa dal governo centrale. Nove dei suoi attivisti più agguerriti finirono in carcere, ma per la prima volta entrarono nel mini parlamento due giovani politici dichiaratamente pro indipendenza. Poi c’è stato il caso dei cinque librai, misteriosamente scomparsi proprio prima che venisse data alle stampe un libro sugli amori prematrimoniali del Presidente cinese e riapparsi qualche tempo dopo su territorio cinese solo per essere incriminati di altri reati. Stessa sorte capitata a uomini d’affari cinesi intrappolati nelle maglie della campagna anticorruzione e prelevati, illegalmente, dal territorio dell’ex colonia britannica. Infine, ultime solo in ordine di tempo, le manifestazioni oceaniche dell’ultimo mese.
E questa volta le preoccupazioni non riguardano più solo giovani e agguerriti sognatori, dissidenti e attivisti. L’intero mondo del business e della finanza è coinvolto. Alcune importanti holding internazionali si sono dette intenzionate a lasciare il territorio proprio a causa delle «contraddizioni sociali e dell’instabilità politica», mentre uomini d’affari locali diventati tycoon investendo tra i primi sul territorio della Repubblica Popolare hanno manifestato preoccupazione perché quelle operazioni, proprio in virtù delle nascenti zone economiche speciali, non furono mai del tutto limpide e avulse da mazzette e tentativi di corruzione. Manager di importanti aziende statunitensi che per paura di ritorsioni politiche hanno smesso di visitare la Cina continentale avvisano che se la legge sull’estradizione passerà, smetteranno anche di volare sulla confinante Hong Kong. L’élite economica-finanziaria della città comincia a sentirsi in pericolo tanto che pare che la vicina Singapore si stia già preparandosi ad accoglierla. E questo la città non può permetterselo, almeno per il momento. Non è un caso che il governo locale abbia fatto una clamorosa retromarcia e che Pechino spieghi con fantomatiche interferenze americane le ultime proteste. Il giorno dei due milioni in strada ad Hong Kong, la televisione di Stato cinese dava notizia solo di una quarantina di manifestanti di fronte al consolato USA. Più che «un Paese, due sistemi» ormai si tratta di «un Paese, due narrazioni». Peccato che questo Pechino non potrà mai accettarlo.
(Cecilia Attanasio Ghezzi è giornalista. Dal 2011 al 2017 ha vissuto a Pechino ed è stata caporedattrice di China Files. Ha lavorato con Internazionale, La Stampa, Il Fatto Quotidiano e molti altri. Attualmente è a Milano, nel gruppo editoriale News3.0)