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La crisi dei mercati nel comune agricolo più grande d’Italia
Negli ultimi decenni si è ridotto sensibilmente il numero di pasti consumati in casa, un fatto che ha rivoluzionato il modo di fare la spesa. L’interesse per la qualità e la filiera corta, sebbene stia recuperando terreno, oggi orienta un numero ridotto di scelte di acquisto. Nell’organizzazione quotidiana della propria vita, la grande maggioranza dei cittadini ha tagliato drasticamente il tempo dedicato all’approvvigionamento alimentare. La spesa è una pratica sbrigata in fretta al termine della giornata o nel fine settimana, privilegiando il supermercato e i prodotti trasformati o confezionati, come dimostra la diffusione a macchia d’olio della cosiddetta «quarta gamma». I dati raccontano che circa il 70 per cento degli acquisti alimentari oggi avviene nei punti vendita della Grande distribuzione organizzata (GDO)[1], che si procura i prodotti attraverso piattaforme logistiche dedicate. Alla luce di queste statistiche, è evidente che resta poco spazio per le altre forme di distribuzione del cibo. Così, il commercio alimentare al dettaglio ha dovuto trovare altre vie per sopravvivere: ne è un esempio il fiorire in numerose città di piccoli esercizi gestiti da personale egiziano o bengalese, aperti tutti i giorni della settimana fino a notte fonda. Questi minimarket fanno degli orari non stop e dei prezzi stracciati (a fronte di una scarsa qualità del prodotto) il loro punto di forza. Una sicurezza per i molti cittadini che, al termine della giornata lavorativa, possono fermarsi lungo la strada e «tamponare» la dispensa in attesa del week end.
A soffrire particolarmente le ripercussioni di una rimodulazione dei tempi e degli spazi del commercio, profondamente legati alle trasformazioni della vita sociale ed economica, sono i mercati rionali, un tempo polo centrale degli acquisti alimentari. Gli operatori, schiacciati dalla competizione con la GDO e i dettaglianti, devono puntare sulla fidelizzazione dei consumatori per non soccombere. La conoscenza del prodotto e la cura nell’esposizione sono armi del mestiere che tuttavia non riescono a influenzare il pubblico al di fuori delle mura del mercato. Mentre lentamente si assottigliano le schiere della clientela, gravata da un elemento anagrafico che ne riduce via via gli spostamenti, manca un ricambio generazionale e un rinnovamento delle strutture e delle loro funzioni.
In questo quadro si colloca la ricerca Magna Roma: perché nel comune agricolo più grande d’Italia i mercati rionali stanno morendo”, curata dall’associazione Terra! e concentrata sui 127 mercati della capitale, settore cresciuto vorticosamente dal secondo dopoguerra e importante canale di distribuzione per l’agricoltura laziale. Roma è il primo comune agricolo d’Italia: i dati dell’ultimo censimento sull’agricoltura ne stimano la superficie agricola totale in 58.000 ettari, quasi la metà dei 128.000 totali. Sul territorio comunale operano circa 800 aziende (dati dell’Ufficio UMA di Roma Capitale), che allargando alla provincia salgono a 20.000 e a 82.000 se il calcolo si estende su scala regionale.
Il Centro Agroalimentare Roma
Una quota importante dei prodotti ortofrutticoli freschi coltivati nel Lazio è storicamente confluita nei mercati di quartiere della capitale, passando attraverso i mercati generali situati lungo la via Ostiense. Inaugurati nel 1922 e chiusi nel 2004, hanno scritto un pezzo della storia di Roma. Questo snodo cruciale dell’alimentare romano catalizzava le produzioni locali per poi immetterle nel circuito della vendita al dettaglio, all’interno del quale i mercati rionali giocavano un ruolo di primo piano. La delocalizzazione è stata attuata con l’inaugurazione del Centro Agroalimentare Roma (CAR), un polo logistico di 140 ettari e 130 milioni di euro nel comune di Guidonia, a est della capitale. A possedere tutto il complesso immobiliare è la CAR S.c.p.A, società consortile a prevalente capitale pubblico[2]. In tutto, circa il 90 per cento delle azioni sono detenute dalla pubblica amministrazione, con una minoranza in mano a tre istituti di credito[3] e a un gruppo di privati[4].
Nel centro agroalimentare operano grossisti e produttori dei comparti ittico e ortofrutticolo, che riforniscono soprattutto i commercianti dei mercati rionali romani. La GDO si rivolge talvolta al CAR, ma soltanto per completamenti di gamma. Intensi anche i rapporti con la ristorazione, gli hotel e i catering (Ho.re.ca), i dettaglianti, le mense cittadine, provinciali e regionali. I prodotti che passano dal polo logistico arrivano fino in Umbria, Abruzzo e Toscana e non manca una quota di esportazioni. Circa il 30 per cento dei prodotti che transitano dal CAR provengono da Lazio, Abruzzo e Campania, con un 75 per cento dei volumi coperto da prodotti nazionali. Al Centro agroalimentare arrivano anche prodotti esteri – dai fagiolini del Kenya ai carciofi tunisini, dai broccoli francesi alla frutta spagnola (meloni, arance, mandarini, nespole e fragole). Resiste inoltre uno zoccolo duro di 200 produttori diretti che affittano 26 stand sui 120 totali (senza contare i 49 del mercato ittico).
Il centro influisce sulla formazione dei prezzi, sia tramite la concorrenza interna sia attraverso la redazione di un listino prezzi per il mercato ortofrutticolo e ittico da parte della società di gestione. Il listino, pubblicato quotidianamente su Internet, è basato su una rilevazione delle contrattazioni tra i grossisti. I prezzi restano sostanzialmente stabili, così come le relazioni tra fornitori e commercianti. I compratori quasi sempre conoscono il venditore e hanno con lui un rapporto di lunga data.
I mercati di quartiere
I principali clienti del CAR sono proprio gli operatori dei mercati di quartiere. Secondo l’ultimo censimento, effettuato nel 2015 dal Dipartimento Sviluppo economico di Roma Capitale, i mercati sono ben 127, per un totale di oltre 5000 esercenti[5]. Lo zoccolo duro è rappresentato dai cosiddetti mercati in sede propria, soprattutto coperti, in cui vendono più 3000 operatori, molti dei quali del settore agroalimentare. Gli edifici che li ospitano, però, brillano per incuria, con un migliaio di posteggi vuoti[6] che attendono di essere riassegnati. Il comune, dal canto suo, non favorisce la ripresa del settore: ha lanciato l’ultimo bando nel 2013[7], finendo di assegnare le postazioni nell’autunno 2017. Dopo quattro anni, la maggior parte dei vincitori aveva trovato altre strade. In questi mercati, che talvolta hanno sede in edifici storici e di pregio, tira un’aria di smobilitazione che non rende giustizia a un vivace passato. Complice una radicale trasformazione sociale che ha investito anche gli stili di consumo, le strutture sono praticamente deserte per gran parte della settimana e si ravvivano soprattutto il sabato, giorno di spesa per molte famiglie. A oggi si rintracciano ancora 120 produttori diretti dietro i banchi dei mercati romani. Ma si tratta per lo più di agricoltori in età avanzata, ultimi esemplari di una «specie in via di estinzione».
Mentre alcuni mercati sono gestiti direttamente dal comune, in 51 strutture gli operatori hanno scelto da decenni l’autogestione, costituendosi in associazioni di gestione dei servizi (AGS). Questo sistema permette loro di abbattere dell’80-90 per cento il canone versato all’amministrazione per l’occupazione di suolo pubblico, gestendo in house i servizi di custodia, pulizia, le utenze e tutta la manutenzione ordinaria. La quota destinata a Roma Capitale dovrebbe essere invece utilizzata per la manutenzione straordinaria, cioè per gli interventi strutturali. Un equilibrio che ha tenuto per anni, finché con la delibera n. 4/2017, l’amministrazione ha modificato la percentuale che le AGS sono tenute a versare, stabilendo una nuova tariffa che dal 10-20 per cento sale al 50 per cento del canone.
Se questa rimodulazione delle spese ha offerto una ragione in più agli operatori per puntare il dito contro il disinteresse delle istituzioni, è pur vero che parte del declino è frutto della loro scarsa capacità di interpretare i mutamenti sociali e di consumo. Oggi la normativa comunale permette di somministrare cibo nei mercati e di tenere le strutture aperte fin oltre l’ora di cena. Ma in pochi sfruttano queste possibilità di intercettare una clientela che segue ormai tempi di vita diversi da 30-40 anni fa. Così, molte realtà si spengono lentamente, incapaci di rinnovarsi e scarsamente supportate dalle amministrazioni.
L’urgenza di una strategia
Negli ultimi anni, le giunte che si sono susseguite alla guida del comune di Roma hanno messo in campo strategie per mitigare la crisi dei mercati rionali, ma è mancata una visione di sistema e una pianificazione a lungo termine. La riforma del settore è quindi parziale, incompleta, ampiamente migliorabile. Schiacciati da una regolamentazione confusa e inefficiente, messi all’angolo della concorrenza, i mercati non hanno soltanto bisogno di una boccata d’ossigeno: è necessario ripensarne la funzione sociale. Un’impresa possibile, ma solo se la politica sarà in grado di intercettare i mutamenti nelle pratiche di consumo, le richieste dei consumatori e le necessità degli operatori. Per valorizzare le produzioni locali, che pure non mancano sui banchi del mercato, servono strumenti innovativi di trasparenza e valorizzazione, oltre all’implementazione di controlli e far rispettare i regolamenti europei sulla tracciabilità. Esibire l’origine dei prodotti, pratica oggi ampiamente trascurata all’interno dei mercati, è un primo passo verso la fidelizzazione dei consumatori, ma a questa misura minima si possono accostare altre proposte interessanti. Per esempio, la riabilitazione dell’Albo dei produttori agricoli in vendita diretta, istituito nel 2003 dall’amministrazione (ma poi non rifinanziato) per censire e valorizzare visivamente nei mercati gli agricoltori del territorio comunale.
Per avviare una strategia coerente ed efficace, tuttavia, serve il coinvolgimento delle istituzioni a ogni livello: dai municipi alla regione, passando per il comune, è necessario un dialogo costruttivo su alcuni punti specifici. Sarebbe opportuno intervenire con una semplificazione dei sistemi di autorizzazione alla vendita nei mercati, un decentramento della gestione dei bandi a livello municipale e una serie di investimenti cospicui nella manutenzione straordinaria. Infine, non si può prescindere da robuste campagne di comunicazione e sensibilizzazione, rivolte sia al settore agricolo sia ai cittadini. Per mezzo di queste iniziative, le amministrazioni potrebbero rivitalizzare la rete di strutture in cui la produzione del Lazio incontra il consumo di massa.
Il combinato di queste misure potrebbe ridare ossigeno a un commercio su aree pubbliche in piena crisi, e da questa prima conquista si potrebbe partire per avviare un dibattito sulle politiche del cibo nella capitale d’Italia. Infatti, nonostante sia in atto un processo di concentrazione della proprietà terriera a beneficio di un numero calante di imprese con dimensioni crescenti, l’agricoltura romana e laziale è ancora un settore primario dominato dalle realtà di media, piccola e piccolissima scala, molto legate alla commercializzazione sul territorio regionale e poco vocate all’esportazione. Tuttavia, negli anni si è progressivamente persa l’integrazione con il mercato locale e l’abbandono da parte delle istituzioni, prive di un disegno condiviso per potenziare il consumo di prodotti del territorio e promuovere lo sviluppo rurale, sta contribuendo alla disgregazione del rapporto tra agricoltori e consumatori della città. È indispensabile un approccio olistico alla materia, che allarghi lo sguardo al complesso intreccio tra sistema produttivo dell’area metropolitana e reti di distribuzione, con l’obiettivo di costruire una strategia alimentare urbana che metta al centro il diritto al cibo locale e di qualità. Molte città europee e nordamericane hanno strutturato da tempo le loro politiche alimentari, ma nel nostro Paese solo Milano e Torino (in parte) hanno avviato un processo simile. Come primo comune agricolo d’Italia, arricchito da una così fitta rete di mercati cittadini, Roma potrebbe rappresentare un caso studio più unico che raro se mettesse a punto una strategia capace di rilanciare questo sistema distributivo, la cui capillarità e struttura permette di dare lavoro a migliaia di persone, rafforzando al contempo i legami commerciali con le aree rurali. Oltre a rappresentare un contributo all’analisi, il rapporto Magna Roma si pone come obiettivo l’apertura di questo più ampio dibattito nella capitale, un dibattito che ha a che vedere con il futuro dell’agricoltura e del commercio agroalimentare su un pianeta in progressiva urbanizzazione.
(Francesco Panié è ricercatore di Terra! Onlus, www.terraonlus.it)
[1] Federdistribuzione, Rapporto sul sistema distributivo italiano, 2015.
[2] L’azionariato è suddiviso quasi equamente tra Camera di commercio (33,03 per cento), Roma Capitale (28,37 per cento) e Regione Lazio (26,79 per cento). La Città metropolitana detiene il 2,83 per cento.
[3] Bnl, UniCredit e Monte dei Paschi, ciascuna con il 2,55 per cento.
[4] Le aziende private hanno quote pari all’1,34 per cento.
[5] Tra «coperti» e «plateatici», i mercati «in sede propria» (dedicata) sono 68 per circa 3400 postazioni, mentre quelli «in sede impropria» (per strada o in piazza) sono 59 per 1490 posteggi. Chiudono l’elenco 74 mercati saltuari (con 4200 posteggi) e poco meno di 2200 ambulanti, che però in genere non si dedicano al commercio agroalimentare.
[6] I posteggi non assegnati nei mercati in sede propria sono 765, pari al 18% degli organici. Quelli recuperabili nei mercati in sede impropria sono 228 (dati 2015).
[7] http://bit.ly/2DpzuvX