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Tutte le risorse dell'Africa
Intervista a Matteo Di Castelnuovo
Uno dei temi che è emerso a più riprese negli interventi del Forum riguarda l’impatto dei processi di transizione energetica sulle economie e sulle società del continente africano. In che modo l’elettrificazione di settori tradizionalmente oil-based come l’automotive finisce per avere una ricaduta sulle economie di alcuni Paesi africani?
Una delle questioni centrali legate alla diffusione delle energie rinnovabili è quella della crescente necessità di dispositivi per lo storage dell’energia prodotta: in altre parole, di batterie. La disponibilità di batterie in cui immagazzinare energia è fondamentale anche per un altro mercato in grande espansione come appunto quello delle auto elettriche.
L’impennata nella domanda di batterie implica, a monte della catena del valore, una richiesta crescente delle materie prime necessarie a produrle, come il litio e il cobalto. Alcuni Paesi africani sono particolarmente ricchi di questi metalli: dal Congo, per esempio, proviene oltre il 60 per cento dell’attuale produzione globale di cobalto, mentre lo Zimbabwe è il quinto produttore al mondo di litio. Una disponibilità di risorse che spinge gli operatori del settore – dalle grandi società minerarie ai produttori di batterie, sempre più desiderosi di controllare in prima persona l’intera filiera – a mantenere una propria presenza in loco.
Questa ricchezza di metalli tanto richiesti può effettivamente diventare un motore di sviluppo per i Paesi africani interessati? In che modo?
In realtà, in una prospettiva di lungo periodo, la ricchezza di materie prime spesso si è tradotta più in un freno che non in un propulsore di crescita per il continente africano, al punto che si è parlato di una vera e propria resource curse.
In effetti, in un’ottica di sostenibilità non solo ambientale ed economica, ma anche sociale, l’estrazione di metalli nei Paesi africani può comportare degli elementi di ambiguità.
Un primo aspetto, che non riguarda certo le aziende multinazionali di maggiori dimensioni, ma che in alcuni casi ha coinvolto società minerarie più piccole che operano in questi Paesi, è quello relativo alle effettive condizioni della forza lavoro locale, dal supersfruttamento al lavoro minorile.
D’altro canto, non necessariamente l’avvio di attività estrattive si lega all’impiego di manodopera locale: un caso esemplare è quello delle aziende cinesi, che tendono in genere a privilegiare l’impiego di forza lavoro straniera trapiantata in loco, facendo quindi fatica a tradursi in una reale opportunità per le popolazioni indigene.
Infine, una questione più generale è quella relativa al possibile tentativo, da parte dei grandi operatori, di tenere volutamente bassi i livelli di produzione per «drogare» il mercato; una dinamica che impedisce di mettere pienamente a frutto il potenziale del settore.
In sintesi, il tema fondamentale è quello dell’impact assessment che gli investimenti e le attività in questo ambito possono avere nei Paesi africani interessati.
Quali sono le leve che possono essere utilizzate per assicurare la sostenibilità dell’industry mineraria in questi Paesi?
A mio avviso, gli strumenti fondamentali sono quelli della trasparenza e della tracciabilità. Nel mondo di oggi, i consumatori finali hanno accesso molto più facilmente rispetto al passato a informazioni riguardo alla provenienza dei prodotti che utilizzano; e le grandi aziende non possono permettersi di venir associate, anche solo indirettamente, a forme di produzione ritenute non etiche o comunque non sostenibili. Per questo è importante che ci siano agenzie internazionali e organizzazioni non governative che monitorino costantemente le filiere produttive a tutti i livelli.
Inoltre, è fondamentale che il mercato di queste materie prime sia quanto più possibile aperto alla competizione, evitando che singoli Paesi o singole aziende finiscano per controllare l’intera produzione di un determinato metallo – una situazione che renderebbe difficile esercitare su di essi una pressione efficace verso una maggiore sostenibilità.
Nel corso del Forum non si è parlato solo di energia, ma più in generale delle opportunità di crescita e imprenditorialità che il continente africano offre oggi. Qual è il messaggio che se ne può ricavare per chi voglia iniziare a dialogare e fare affari con queste realtà?
Prima di tutto, è indispensabile prendere atto che dei Paesi africani sono ancora molto diffuse rappresentazioni stereotipate, mentre la realtà del continente è molto più complessa. Basti pensare che oggi metà della popolazione del continente non vive in remoti villaggi rurali, ma in aree urbane. E il potenziale di crescita, specialmente di alcuni Paesi, dalla Costa d’Avorio al Ruanda all’Etiopia, è già oggi notevole.
Gli imprenditori africani con cui siamo entrati in contatto hanno dimostrato di avere idee, motivazione, competenze, e un forte interesse a entrare in contatto con interlocutori europei: un potenziale che, senza ignorare le difficoltà del caso (a partire da quelle burocratiche relative alla concessione dei visti) dobbiamo cercare di mettere a frutto, con vantaggio di tutte le parti coinvolte.
(lg)