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Gianni Canova, Severino Salvemini

L’ora più buia

Fra carisma e intelligenza emotiva

Portando sullo schermo la figura di Winston Churchill in uno dei momenti più cupi della storia del Novecento, il film di Joe Wright L’ora più buia offre un ritratto a tutto tondo, anche se non privo di ombre e di contraddizioni, di un uomo che si trova a dover gestire la sua leadership in condizioni di estremo pericolo e di intollerabile tensione, e che ha la forza e il coraggio non solo di assumersi la responsabilità delle sue decisioni ma anche di convincere il popolo e il Parlamento a seguirlo in una scelta per cui promette soltanto lacrime e sangue.

L’ora più buia

Regia: Joe Wright

Int.: Gary Oldman e Kristin Scott Thomas

Gran Bretagna, 2018.

Maggio 1940. L’invasione nazista dell’Europa pare inarrestabile. Hitler sembra avere la vittoria a portata di mano. Polonia, Belgio, Olanda e Francia sono ormai fuori gioco. Gli Stati Uniti non intervengono. E anche la Gran Bretagna – di fronte a un’imminente minaccia di invasione – sembra sul punto di capitolare, negoziando un trattato di pace con il Reich. Ma il primo ministro britannico Winston Churchill, nonostante la contrarietà del suo partito e dell’intero Parlamento, decide di assumere su di sé il peso e la gravità di una decisione storica: quella di non arrendersi e di continuare la guerra per difendere gli ideali e la libertà della nazione e del mondo intero. Nei panni di Churchill, Gary Oldman – giustamente premiato con l’Oscar – fa un capolavoro di virtuosismo mimetico nel riprodurre la postura, la camminata e la gesticolazione del premier britannico. Ma la cosa più sorprendente è il suo lavoro sulla voce: Oldman ha studiato attentamente la dizione di Churchill, il ritmo delle frasi nei suoi discorsi pubblici, la sua tendenza a troncare le parole, a sconnettere le frasi, a non rendere sempre immediatamente intellegibile il parlato. Ed ecco che sul set Oldman a volte biascica, farfuglia, tartaglia, si inceppa. Poi, con improvvisi colpi d’ala verbali, ritrova il bandolo del discorso e la sua voce impastata di whisky e di tabacco si impenna nei grandi discorsi che hanno saputo mobilitare un intero popolo, oltre che il Parlamento britannico, spingendoli a resistere fino all’ultimo di fronte alla minaccia che la svastica del Terzo Reich potesse sventolare su Buckingham Palace. Lo si dice apertamente nel finale del film: «Churchill ha mobilitato la lingua inglese e l’ha spedita in guerra». Vero: a vedere questo film, magari in dittico con Il discorso del re (2010) di Tom Hooper, viene effettivamente da pensare che la Gran Bretagna abbia fermato l’avanzata nazista con le parole prima ancora che con le armi. E vien da pensar anche all’importanza che la parola ha sempre avuto e ha tuttora nei processi decisionali e in quelli di costruzione e di esercizio della leadership. Ne discutono Severino Salvemini e Gianni Canova.

S.S. A me pare che il Churchill disegnato dal regista Joe Wright e da Gary Oldman sia un esempio emblematico di carisma. Uomo fuori dagli schemi, oratore impareggiabile, brusco e umorale, fragile e risoluto, individualista e nazionalista, solenne quando è al Parlamento ma semplice quando dialoga con la gente comune, cocciuto fino al punto di ostinarsi sulle sue posizioni fino al possibile sfacelo, eticamente intransigente ma non moralista, Churchill è stato carismatico come pochi uomini sono stati nel suo secolo.

G.C. Questo carisma però nel film emerge a poco a poco. All’inizio, anzi, Churchill appare come un leader osteggiato dal suo stesso partito, a volte temuto, certamente non amato. E questo rende ancora più interessante il suo percorso di assunzione della leadership…

S.S. Per come appare nel film, la forza di Churchill è prima di tutto nella sua capacità di resistenza alla pressione sociale dell’intero gruppo dei parlamentari del suo partito, che avrebbero voluto aprire a un negoziato di pace con Hitler, a condizioni certamente non vantaggiose per gli inglesi. Rispetto alla teoria della psicologia sociale, che afferma che quasi sempre le persone conformano i loro comportamenti all’ideologia dominante, Churchill nel film si staglia come campione di indipendenza e di carattere non scalfibile dagli altri.

G.C. A me è la sua statura di leader che colpisce. Quando nel discorso finale in Parlamento, nell’ora più buia della storia e della sua vita, riesce a convincere una nazione intera a non mollare, e le infonde l’energia e la fiducia per continuare a combattere, Oldman dà la sensazione di essere davvero Churchill,  e trasmette a tutti l’idea di cosa potrebbe essere la politica se i leader fossero di quella tempra, e se avessero il coraggio di dire al popolo la verità, anche se amara, anche se bisognosa di lacrime e sangue, invece che inventare favole e menzogne nella speranza di ottenere qualche consenso in più.

S.S. Io trovo che il Churchill del film di Joe Wright esprima molto bene quell’abilità fondamentale che nelle organizzazioni e nelle aziende contemporanee definiamo come intelligenza emotiva. L’espressione è una sorta di ossimoro, mette l’una accanto all’altra razionalità ed emotività, indica quell’abilità mentale che concerne la capacità di gestire e di ragionare sulle emozioni e di usare le emozioni stesse per sostenere e migliorare i nostri ragionamenti. In questa prospettiva il Churchill di Gary Oldman è esemplare perché affronta le sue emozioni esplicitamente (anche senza farsi sopravanzare da esse), le usa per sostenere il suo pensiero logico, le descrive e le sfrutta quando affronta i discorsi pubblici, se ne compiace anche nella sua sfera più intima e privata.

G.C. Tutto ciò si vede molto bene nella scena-madre in cui Churchill scende in metropolitana – lui che da vero snob l’aveva sempre evitata – per sentire il polso del popolo, per captarne le emozioni e per trasformarle in intelligenza strategica. Lì, quando tutti i sudditi di Sua maestà si oppongono con fermezza all’idea di vedere una svastica sventolare su Buckingham Palace, il film riesce davvero a trasmettere un’intelligenza emotiva che dai personaggi e dallo schermo tracima anche nel pubblico, lo commuove e ci commuove, non rinunciando a farci ragionare su ciò che ci sta commuovendo. Sublime.

S.S. Condivido. Ma aggiungo che tutto ciò ci «tocca» anche per il fortissimo impatto visivo che il film trasmette. Le tenebre evocate dal titolo trovano la loro specularità nei luoghi claustrofobici in cui sono ambientate gran parte delle scene, illuminate da tonalità caravaggesche: uffici interrati, cunicoli, corridoi, ascensori, che comunicano la sensazione angosciante e opprimente dei momenti terribili passati da una nazione sull’orlo della capitolazione davanti a un nemico sanguinario, e la forza di un individuo solo che ha il coraggio di prendersi sulle spalle i destini del mondo.

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