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Annalisa Perteghella

#businessiniran: ultimi sviluppi

Riprendendo il discorso avviato con il dossier sul numero 5-6/2017 di Economia & Management, proponiamo qui una riflessione sulle vicende più recenti nel Paese e sui possibili impatti sulle attività delle aziende italiane

Recentemente l'Iran è stato scosso da un’ondata di proteste di piazza che hanno avuto origine a Mashhad, cittadina del nord-est dell’Iran, fulcro del potere religioso e del conservatorismo politico che gli sottende. Il fatto dunque che proprio da Mashhad abbiano avuto origine proteste anti-governative ha portato molti osservatori a sospettare di un possibile ruolo della fazione politica ultra-radicale legata a Ebrahim Raisi, custode del santuario di Mashhad e concorrente di Hassan Rohani alle elezioni presidenziali del 2017. Il disegno politico degli ultra-radicali dietro le proteste sarebbe quello di mettere in difficoltà il già debole governo di Rouhani, impedendogli di portare avanti l'agenda delle riforme su cui si basa la sua stessa esistenza.

Se l’effettivo coinvolgimento degli ultra-radicali è ancora da provare, un primo dato certo che emerge è la diffusione capillare delle proteste sul territorio iraniano quasi nella sua interezza, con una concentrazione soprattutto nel nord-ovest e nel nord-est.

Dati certi emergono anche su motivi e composizione socio-economica della protesta, ribattezzata «rivolta dei mostazafin» (diseredati). I manifestanti, infatti, appartenenti perlopiù alle classi lavoratrici medio-basse e in gran parte alla fascia giovanile, sono scesi in piazza per protestare contro un profondo disagio economico dovuto alla mancata realizzazione dei benefici attesi con l’accordo sul nucleare del 2015: tasso di disoccupazione elevato, aumento del costo della vita e corruzione diffusa sono tra i principali motivi dello scontento. Dalle motivazioni di carattere economico, gli slogan dei manifestanti si sono poi ampliati, fino a comprendere la protesta contro l’inquinamento, contro la gestione del post-terremoto nell’area attorno a Kermanshah, e contro la dispendiosa politica estera iraniana di ingerenza in Siria, Yemen e a Gaza. Dall’ambito socio-economico dunque le proteste sono scivolate in quello politico, con cori che inneggiavano alla «morte del dittatore», riferendosi alla Guida suprema Ali Khamenei.

L'ampliarsi dell’oggetto della protesta non è stato però sufficiente a trasformarla in un vero movimento di massa capace di influenzare le sorti del regime. Già all’inizio di gennaio il comandante del Corpo dei guardiani della rivoluzione annunciava che le proteste – attribuite dal regime all’ingerenza dei «nemici esterni» – erano state sedate. A determinare la rapida fine delle proteste sembrano essere stati soprattutto tre fattori: la loro natura acefala, che se all’inizio ha rappresentato un elemento facilitatore, in un secondo momento ha privato i manifestanti di una guida; in secondo luogo la pesante repressione messa in atto dalla Repubblica islamica – si stima che 23 manifestanti abbiano perso la vita, mentre altri sei sarebbero morti in circostanze ancora da chiarire mentre si trovavano agli arresti; infine, l’incapacità di questo movimento popolare di diffondersi tra le diverse fasce della popolazione e diventare veramente di massa.

Ma in che modo l’accaduto può impattare sulle prospettive economiche tra Italia e Iran? Al momento, non sembrano esserci pericoli di un allentamento delle relazioni. A differenza dell’approccio statunitense, Italia e Unione Europea non hanno manifestato l’intenzione di utilizzare le proteste popolari in Iran come leva per estrarre concessioni dal regime. Al contrario, il timore che in futuro si possano manifestare nuove ondate di protesta, e che queste possano sfuggire al controllo mettendo dunque in pericolo la sopravvivenza della Repubblica islamica, potrebbe spingere Rouhani ad accelerare l’agenda delle riforme, necessarie affinché dalla parziale riapertura del sistema economico iraniano seguita all’accordo sul nucleare emergano benefici concreti per l’intera popolazione.

Il vero ostacolo per le relazioni Italia-Iran è semmai rappresentato dalla politica ondivaga del presidente Trump. Se lo scenario di un naufragio dell’accordo sul nucleare rimane al momento improbabile, le continue minacce ed esitazioni degli USA stanno di fatto alimentando un clima di incertezza che è per eccellenza nemico del business. La notizia della firma – a inizio gennaio –  di un Accordo quadro di finanziamento (Master Credit Agreement) tra l’italiana Invitalia e due banche iraniane (la Bank of Industry and Mine e la Middle East Bank) è da considerarsi positiva perché risolve il problema del finanziamento dei progetti di investimento. La somma destinata però – 5 miliardi di euro – rischia di essere troppo piccola per le potenzialità del mercato iraniano, e dovrà essere seguita da azioni altrettanto efficaci e dimostrative per la difesa degli interessi delle imprese italiane e, su un piano più ampio, delle relazioni tra Italia e Iran.

(Annalisa Perteghella è Research Fellow presso l’ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionale di Milano)

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