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Aspettando il re
Il manager «argilloso»
Aspettando il Re
Regia: Tom Tykwer
Int.: Tom Hanks e Santa Choudhury
Usa, 2017
«Ma come sono finito così?». Proprio all’inizio di Aspettando il Re, il personaggio interpretato da Tom Hanks pone a se stesso e a tutti noi uno di quegli interrogativi che è inevitabile rivolgersi dopo una crisi, una caduta, un momento di impasse. Lui, già manager di un’importante società, ha commesso alcuni errori ed è caduto in disgrazia: ha perso la casa, ha divorziato dalla moglie, non ha i soldi per pagare il college all’adorata figlia ed è divorato dal senso di colpa per aver chiuso una fabbrica di biciclette accettando la delocalizzazione in Cina, con la conseguente disoccupazione di centinaia di lavoratori yankee. Ora Alan Clay (clay come creta, argilla…) è stato spedito in Arabia con la missione impossibile di concludere un accordo con il re saudita per la fornitura di nuove tecnologie comunicative basate sull’uso di ologrammi (Ologramma per il Re è il titolo originale del film, oltre che del romanzo di Dave Eggers da cui il film è tratto). Praticamente deve vendere simulacri dell’umano che sappiano fare senza errori ciò che gli umani non sempre sono in grado di fare. Arrivato in Arabia, per prima cosa deve superare lo shock ambientale: deve cioè fare i conti con quella fase di «ambientazione» climatica e culturale che è di fatto inevitabile per chiunque si trovi a operare in un contesto differente da quello abituale. Sbattuto in una grande tenda in mezzo al deserto, nei pressi di una città virtuale che ancora non c’è (ma che il re vorrebbe costruire sulla riva del mare), senza wi-fi, senza aria condizionata, senza pasti regolari, Clay si presenta ogni giorno all’appuntamento con il re o con il suo rappresentante, ma ogni volta gli viene detto che non c’è né l’uno né l’altro, e che l’appuntamento è rinviato al giorno successivo. Precipitato in una situazione in bilico tra Kafka (Il castello) e Beckett (Aspettando Godot), scarrozzato avanti e indietro dall’hotel di Jedda alla tenda nel deserto da un autista arabo un po’ svalvolato che adora i Chicago e Elvis Presley, il nostro manager è tormentato da visioni e ricordi che gli tolgono il sonno e da un fastidioso bubbone (una cisti? Un lipoma?) che gli si è gonfiato sulla schiena e in cui somatizza – forse – i propri fallimenti professionali ed esistenziali. Come superare questo difficile momento? Che doti deve avere un manager per riuscire a operare in modo efficace in un contesto tanto diverso dal solito? Ne discutono Severino Salvemini e Gianni Canova.
S.S. A me pare che il protagonista sia il tipico esponente di un capitalismo stanco e anche un po’ declinante. È l’espressione del sogno americano e della superpotenza USA ai tempi della globalizzazione, con un interessante contrasto tra un Occidente che arranca e un Medio Oriente che corre verso l’innovazione più sfrenata.
G.C. Condivido, ma a patto di aggiungere che il disagio che lo scava dentro è accentuato dalla difficoltà di comunicare non solo con il paese in cui si trova, popolato da maschi arabi in tunica bianca e kefiah biancorossa, ma perfino con il suo stesso team. Sotto il tendone piantato nel cuore del nulla, per esempio, per dare fiducia alla squadra e ammantarsi di sicurezza, se ne esce con una battuta a effetto: «Per uccidere me ci vuole una pallottola d’oro!». La ragazza bionda del team lo guarda con aria interrogativa. E lui, sorridente: «Lawrence d’Arabia!». Ma lei non coglie la citazione e sgrana gli occhi: «Lawrence chi?». Il gap culturale, evidentemente, non riguarda soltanto gli arabi.
S.S. A me colpisce il modo in cui il personaggio di Tom Hanks è obbligato dal contesto e dalla situazione a fare i conti con il tempo dell’attesa. La sua situazione mi ricorda un po’ quella in cui si ritrovava Bill Murray in Ricomincio da capo, quando finiva in una sorta di paradosso temporale nella cittadina americana in cui si celebrava la festa della marmotta. Anche lì, ogni giorno si ripeteva uguale a se stesso, e il personaggio doveva imparare a gestire un tempo circolare invece che lineare e progressivo.
G.C. La diversa concezione del tempo è indubbiamente la prima sfida cross-culturale che il manager americano in trasferta saudita deve imparare ad affrontare. Sulle prime reagisce con stanchezza, si ammala, si perde, gira a vuoto. Diventa sempre più goffo, lento, molle, privo di energia…
S.S. Più di una volta, quando si siede, la sedia si sfascia sotto il suo peso e lo lascia con il sedere a terra: metafora facile, non c’è dubbio, ma chiara, per dire la sua mancanza di equilibrio, la sua fragilità, la sua precarietà. Come l’altra metafora ricorrente, legata al fatto che non sente mai la sveglia e si alza sempre troppo tardi, a significare un ritardo che non è solo suo ma – forse – di tutto l’Occidente e del mondo che in lui trova espressione.
G.C. Nella seconda parte del film, però, la conoscenza con la dottoressa araba sua coetanea (un’eccezione culturale vivente!) e una più accentuata consapevolezza dei suoi errori esistenziali e manageriali lo portano a inverare il destino iscritto nel suo nome. Clay diventa di fatto più argilloso, duttile, malleabile. Si lascia plasmare dal contesto, vi aderisce senza più spigolosità.
Tom Hanks dà al suo personaggio una pregnanza davvero epocale e ne fa l’emblema di un Occidente «argilloso» che magari è meno forte della concorrenza cinese nello stringere accordi commerciali e nel vendere agli arabi simulacri dell’umano, ma che rimane comunque impagabile nella sua capacità di incontrare l’Altro e – al contempo – di lasciarsi plasmare – come la creta – dalle mani, dagli sguardi e dalle culture con cui viene in contatto. Sarà anche un messaggio ottimista, ma è importante coglierlo per le indicazioni prospettiche che ci suggerisce.