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Produttività : E&M innesca il dibattito
Riproponiamo di seguito l'articolo di Innocenzo Cipolletta, Cercando la produttività, pubblicato sul numero 6/2015 di Economia & Management, accompagnato da un commento di Michele Salvati e da una replica dell'autore.
Di cosa si parla quando si parla di produttività?
In genere, le analisi che indicano la bassa produttività come causa dei nostri mali fanno riferimento alla variazione del rapporto prodotto per addetto o per ora lavorata. Analisi più sofisticate fanno invece riferimento alla variazione della produttività totale dei fattori, ossia del lavoro e del capitale, valutato quest’ultimo in vari modi, come stock del capitale impiegato nella produzione.
I dati confermano questo giudizio negativo sulla crescita della produttività nel nostro paese. Recentemente l’Istat ha pubblicato alcune misure di produttività che mostrano (tabella 1) una riduzione della produttività totale dei fattori tra il 1995 e il 2014 (-0,3% annuo) derivante da una crescita limitata della produttività del lavoro (+0,3% annuo) e una riduzione più consistente della produttività del capitale (-1,2%).
Certo, la lunga doppia recessione che dal 2007 ha riguardato il nostro paese e tutta l’Europa ha contribuito a deprimere il calcolo della produttività, ma l’Italia ha fatto peggio di tutti gli altri paesi europei. Secondo i dati di Eurostat e facendo riferimento a tutta la produzione nazionale (il PIL), la produttività per occupato tra il 2005 e il 2013 è scesa in Italia del 7,5%, mentre è scesa solo dello 0,8% in Germania e in Francia. Se invece si prende l’area dei 18 paesi dell’Eurozona, la produttività, così intesa, è aumentata dell’1,1% (tabella 2).
Ce n’è abbastanza per essere convinti che il nostro problema sia la perdita di competitività generata dall’abbassamento della produttività. Infatti, le ricette per la nostra economia sono tutte incentrate sulla ricerca di una maggiore produttività, attraverso nuovi investimenti, maggiore educazione e formazione, riforme strutturali eccetera. Di fatto, la maggiore produttività dovrebbe, secondo queste analisi, darci una maggiore competitività attraverso una riduzione del costo del lavoro (per unità di prodotto) e una maggiore qualità delle nostre produzioni, garantendo così anche maggiori salari. Di questo sono convinti gli imprenditori che chiedono riforme e flessibilità del lavoro, ma anche i sindacati dei lavoratori, che però accusano le imprese di scarsi investimenti e di bassa capacità imprenditoriale.
Ma è questa la misura della produttività che conta per giudicare della competitività di un paese? Fin qui abbiamo parlato di variazione della produttività (in gergo della produttività marginale) mentre niente sappiamo della produttività assoluta, ossia quella che misura quanto prodotto ciascun lavoratore o ciascuna ora di lavoro produce. E un paese è competitivo soprattutto se i lavoratori producono mediamente un elevato valore della produzione (produttività assoluta). Allora, vale la pena andare a stimare quanto produce un lavoratore in questi paesi per poter fare una comparazione e capire se e di quanto siamo inferiori agli altri paesi. Qui le statistiche sono molto più reticenti e i confronti divengono più difficili sia per la difficoltà di comparare stime di capitale (per la produttività totale) sia per la diversità delle valute prese in considerazione.
Malgrado queste difficoltà, possiamo fare qualche confronto approssimativo all’interno dell’Eurozona che ormai ha una sola moneta (l’euro). Ma qui troviamo delle sorprese: nel 2013 l’Italia ha un prodotto per occupato (72.500 euro) superiore dell’1,5% a quello della Germania (71.400) e superiore anche a quello dell’Eurozona a 18 paesi (71.000), mentre la Francia supera tutti (82.200 euro). E, se andiamo indietro nel tempo, ossia prima della grande recessione, le distanze erano ancora più forti sempre a favore dell’Italia (+5% rispetto alla Germania). La crisi del nostro paese non sembra dunque da ascrivere alla più bassa produttività: al contrario, un lavoratore italiano era capace, prima della crisi, di produrre in un anno un valore di reddito superiore a quello della Germania.
Come interpretare queste differenze?
Dovremmo dunque concludere che in realtà Francia e Italia sono più competitive della Germania grazie a una maggiore produttività assoluta dei loro lavoratori? Non credo, perché faremmo un errore analogo, anche se di segno opposto, a quello che fanno gli osservatori della produttività marginale del lavoro che affermano esattamente il contrario. In realtà, Italia e Francia non stanno meglio della Germania, come appare evidente anche senza bisogno di analisi statistiche.
Infatti, malgrado la maggiore produttività assoluta di Italia e Francia, questi due paesi hanno un reddito pro capite (ossia per abitante) ben inferiore a quello della Germania. Nel 2013 il PIL pro capite dell’Italia è risultato pari a 26.500 euro contro i 34.400 della Germania e i 32.100 della Francia. La differenza fra questi dati sta tutta nel tasso di occupazione, ben più elevato in Germania che in Francia e in Italia. In particolare, mentre in Germania il rapporto tra occupati e popolazione totale supera il 48%, l’Italia è sotto al 37% e la Francia sta al 39%.
Queste differenze ci dicono qualche cosa di rilevante. Il maggiore reddito pro capite della Germania rispetto a Italia e Francia non deriva tanto da una maggiore produttività dei suoi lavoratori, bensì da una maggiore occupazione di persone che hanno mediamente una produttività inferiore. Il più basso prodotto per addetto della Germania rispetto a Italia e Francia, unitamente al più alto tasso di occupazione, indica che in quel paese sono inclusi nel mercato del lavoro anche lavoratori a più basso livello medio di produttività (prodotto per addetto). Ecco allora che, se Italia e Francia volessero raggiungere la Germania come reddito pro capite, la via non sarebbe tanto quella di aumentare la produttività degli attuali occupati quanto quella di allargare l’area dell’occupazione per includere anche persone con una bassa produttività. Infatti, mentre la produttività cresce se si riduce in termini relativi il numero dei lavoratori, il reddito pro capite cresce se aumenta non solo la produzione ma anche l’occupazione.
Come fare? Presumibilmente in Germania sono permesse in via legale molte occupazioni che in paesi come l’Italia o non vengono svolte oppure scivolano nel mercato illegale e quindi non sono rilevate. L’aumento del tasso di occupazione passa dunque anche attraverso un’emersione di lavori che vengono negati o svolti in via illegale.
Tutto questo non vuol dire che un paese come il nostro non debba perseguire una maggiore competitività attraverso riforme strutturali (mercato del lavoro, giustizia ecc.), maggiori investimenti e un migliore sistema di educazione, che possono aumentare la produttività dei lavoratori futuri. Al contrario, tutti questi obiettivi sono estremamente importanti in una logica di medio-lungo termine. Ma nel breve termine, se si vuole far crescere il reddito e l’occupazione occorre puntare essenzialmente su un aumento della domanda e su politiche che favoriscano un maggior assorbimento dell’occupazione, anche in lavori marginali.
Gli effetti di composizione
Ce n’è abbastanza per dire che, come noi la intendiamo, la produttività non esiste, ma è solo un quoziente di dubbia interpretazione, specie se ci riferiamo alla variazione nel tempo della produttività del lavoro, ossia alla misura che più di tutte viene portata a giustificare valutazioni e interventi di politica economica, almeno nel nostro paese. Infatti la variazione nel tempo della produttività, intesa come rapporto tra produzione e occupati, trascura del tutto gli effetti di composizione, in particolare del denominatore (ossia gli occupati). L’occupazione è influenzata enormemente dalle variazioni di legislazione che mutano le opportunità di lavoro e dai movimenti demografici e migratori che alterano l’offerta di lavoro e possono determinare risultati che modificano ampiamente la struttura degli occupati anche da un anno all’altro, con il risultato di alterare di molto l’evoluzione e conseguentemente l’interpretazione del fenomeno produttività.
Prendiamo il caso dell’Italia a partire dagli anni Novanta. Il paese soffriva di scarsa capacità di attivare occupazione. La causa era comunemente ricondotta alla poca flessibilità del mercato del lavoro, dove esistevano solo contratti a tempo indeterminato, che emarginavano di fatto tutti i nuovi lavori specie per i giovani, relegati spesso nel mercato nero del lavoro. A quell’epoca si valutava che occorresse almeno una crescita del 2% annuo del PIL per avere un minimo effetto sull’occupazione (di fatto si diceva che la produttività del lavoro cresceva almeno del 2% all’anno). Per ovviare a questo inconveniente, Confindustria e sindacati dei lavoratori negoziarono, assieme al governo di allora (la famosa concertazione), l’introduzione dei lavori a tempo determinato e la liberalizzazione del lavoro interinale (pacchetto Treu del 1997). Queste misure determinarono una crescita dell’occupazione e del tasso di occupazione, includendo molti lavori che prima erano fuori mercato perché illegali o svolti nel mercato nero e quindi non rilevati. Va da sé che questi nuovi lavori avevano mediamente una produttività più bassa (prodotto per addetto) rispetto a quelli a tempo indeterminato, sicché la produttività marginale del lavoro è scesa, ovvero è cresciuto il contenuto di occupazione dell’economia italiana, che era proprio l’obiettivo di quei provvedimenti. Se poi si tiene conto che dagli anni Novanta è cresciuta la componente di immigrazione, ne dobbiamo dedurre che anche questa nuova offerta di lavoro ha mediamente contribuito ad abbassare la produttività del lavoro per effetto di composizione, come mostrano le statistiche prima citate. Ma anche questo fenomeno, lungi dall’essere negativo, ha contribuito ad allargare la platea dell’occupazione e a far salire il PIL, quindi anche il reddito pro capite, perché è aumentata, assieme all’occupazione, anche la domanda interna.
Poiché il tasso di occupazione del nostro paese è ancora basso rispetto alla media europea è da presumere che la diminuzione della produttività continuerà, senza che questo debba necessariamente significare una perdita di competitività.
È la crescita che trascina la produttività e non l’inverso
In conclusione, sembra si possa dire che i paesi che sono cresciuti in questi ultimi anni hanno visto aumentare la loro produttività (prodotto per addetto), pur inglobando quote di lavoratori marginali, perché la crescita ha compensato l’effetto di composizione generato dall’assorbimento di lavoratori a più bassa produttività. Invece, i paesi che hanno subito una riduzione delle attività economiche (come il nostro) hanno conosciuto anche una caduta della produttività (prodotto per addetto) perché hanno comunque dovuto inglobare quote di lavoratori marginali pressati dalle condizioni sociali (immigrazione e quant’altro) senza poter aumentare l’occupazione. Se così è, ne risulta totalmente invertita la relazione che qualcuno avanzava, ossia che la crescita della produttività favorisce la crescita economica. È invece vero l’inverso, almeno nel breve e medio termine, ossia la crescita della produzione (e quindi della domanda) favorisce la crescita della produttività. Certo, nel lungo termine è possibile che la relazione si inverta nuovamente, ma, come diceva Keynes… nel lungo termine siamo tutti morti!
Clicca qui per leggere il commento di Michele Salvati.