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Gianni Canova, Severino Salvemini

Sully

Ma gli algoritmi conoscono la paura?

Quando i motori del suo aereo vanno in avaria, il comandante dell’US Airways 1549 tenta un «ammaraggio» di fortuna sulle acque del fiume Hudson. Tutti i passeggeri si salvano e ne escono incolumi, ma lui viene messo ugualmente sotto inchiesta perché ha deciso e ha agito in modo impulsivo e non razionale. Tratto da una storia vera, Sully di Clint Eastwood mette a fuoco il grande tema del processo decisionale, rivendicando il ruolo e la funzione delle emozioni in qualsivoglia attività umana.

Sully

Regia: Clint Eastwood

Int.: Tom Hanks e Aaron Eckhart

Usa, 2016.

È successo davvero. Il 15 gennaio 2009, poco dopo il decollo, l’aereo della US Airways 1549 si scontra in volo con uno stormo di uccelli, i motori vanno in avaria e il comandante Chelsey Sullenberger – per gli amici Sully – è costretto a tentare un «ammaraggio» di fortuna sul fiume Hudson con una manovra tanto spericolata quanto coraggiosa. Tutte le 155 persone a bordo sono illese: per loro e per i media Sully è un eroe, ma per i burocrati che dall’esterno studiano il caso le cose non stanno così. Vista da fuori la situazione non sembra poi così pericolosa, forse – dice qualcuno – Sully poteva tentare una virata e tornare ad atterrare all’aeroporto La Guardia, senza mettere a rischio la vita dei passeggeri. Gli algoritmi, almeno, dicono così: dicono che Sully non è un eroe, ma un pericoloso avventurista. Dicono che ha rischiato inutilmente. Che non è stato sufficientemente «razionale». Una colpa? Parrebbe di sì: tanto che lui e il suo secondo pilota vengono chiamati a rispondere del loro operato davanti a una severissima commissione di inchiesta.

Interpretato da un intenso e partecipe Tom Hanks, il comandante Sully vede e rivede nella sua testa quei pochi minuti in cui ha dovuto prendere una decisione che coinvolgeva la vita di decine e decine di persone: e la sua riflessione induce anche noi a interrogarci sul grande tema del processo decisionale, messo in scena da Clint Eastwood con una sobrietà e un rigore davvero ammirevoli.

Come di consueto, discutono del tema, a partire dal film, Severino Salvemini e Gianni Canova.

S.S. Mi sembra che il film di Eastwood illustri in modo quasi paradigmatico la critica della scuola cognitivistica ai modelli razionali o addirittura iper-razionali nell’analisi dei processi decisionali. Mi riferisco soprattutto al modello della «decisione a razionalità limitata» proposto da Herbert Simon, premio Nobel nel 1981. Prima di lui molti studiosi si appoggiavano a modelli matematici per individuare il percorso ottimale che portasse le persone a prendere la miglior decisione possibile.

Simon ha ricordato invece che la prospettiva degli individui è sempre soggettiva e quindi parziale: gli attori decisionali non hanno mai tanto tempo a disposizione (il tempo è quasi sempre una risorsa economica scarsa…), non riescono a disporre di informazioni complete e sono spesso ostacolati da impedimenti personali o sociali. L’attore decisionale tende a semplificare, sente che un’analisi troppo raffinata risulterebbe inibitoria dell’azione («la paralisi dell’analisi») e quindi agisce quando ritiene di aver individuato una decisione soddisfacente rispetto al contesto (satisfactory decision, e non optimal decision…).

G.C. Provo a dirlo in altri termini: gli algoritmi non conoscono la paura. Sono esenti dalle emozioni umane. Forse per questo piacciono tanto ai burocrati, che usano gli algoritmi per diventare loro i padroni delle emozioni degli altri e per decidere – dietro il paravento di una procedura matematica oggettiva – i destini dei loro simili. Con una maestria registica davvero unica, senza sbagliare una sola inquadratura, senza una frase o un’immagine di troppo, con una sobrietà e un’essenzialità ammirevoli, Eastwood torna più e più volte sul momento-chiave della decisione, lo disseziona da ogni parte, lo mostra da punti di vista sempre diversi, dentro e fuori, nella cabina di pilotaggio e dall’aula della commissione di inchiesta, e poi rievoca i flussi di coscienza di Sully (l’incubo iniziale, i sogni angosciosi, i ricordi del passato) fino a far sentire anche a tutti noi che Sully è stato un eroe non solo per quello che ha fatto, ma per come lo ha fatto, e soprattutto per come ha gestito il «fattore umano». È questa l’incognita che fa saltare tutte le teorie: l’imprevedibile libera soggettiva modalità di reazione di ogni essere umano a una situazione di pericolo che richiede una decisione immediata in condizioni di stress. Non c’è algoritmo che tenga: il film di Eastwood ci dice questo, e ci dice che è la gestione del «fattore umano» la chiave del successo o dell’insuccesso di ogni procedimento decisionale.

S.S. Certo: è proprio la fiducia illimitata e incondizionata nei confronti degli algoritmi e la convinzione che la razionalità possa risolvere positivamente qualsiasi problema che porta gli analisti del consiglio di sicurezza a mettere sotto inchiesta il comandante Sullenberger e il suo co-pilota Skiles, accusandoli di fatto di essersi lasciati condizionare dalla paura. Il film di Eastwood invece ha il pregio di mostrarci le cose da punti di vista diversi, di farci vedere il punto di vista dei giudici ma anche quello del comandante e del suo co-pilota…

G.G. è un metodo «civile» che Eastwood usa appena può in tutti i suoi film. Non dimentichiamo cosa aveva fatto una decina di anni fa con il dittico formato da Flags of Our Fathers e Letters from Iwo Jima (2006), in cui raccontava il medesimo episodio bellico in due diversi film, prima dal punto di vista dei vincitori (gli americani), poi dal punto di vista dei perdenti (i giapponesi «nemici»), con un coraggio laico e spregiudicato che non ha uguali nella storia del cinema (e non solo in quella…).

Con il suo cinema «umanista», al contempo classico e modernissimo, Clint ci ricorda – appunto – che bisogna sempre osservare le cose da più punti di vista, anche e soprattutto da quello di chi la pensa in modo diverso da noi. E Sully ci fa vedere il medesimo episodio visto da chi era a bordo e da chi era fuori, da chi l’ha vissuto e da chi l’ha soltanto osservato….

S.S. A me il film ha fatto venire in mentre un precedente importante nella grande letteratura russa ottocentesca. Penso alla pagina di Guerra e pace di Tolstoj in cui il generale Michail Kutuzov deve decidere quale ordine dare alla sua armata perché raggiunga indenne la città di Kaluga. A lui giungono informazioni contrastanti e contraddittorie, non ha certezze né sugli armamenti suoi né su quelli degli avversari… Altro che algoritmi (tipici dei war games giocati solo sulla carta…!): il buon Kutuzov è solo con i suoi pensieri e la sua coscienza. E solo questi, insieme alle sue esperienze precedenti, potranno aiutarlo a prendere la decisione che farà di lui un eroe o un combattente fallito. Sully ci racconta in fondo la stessa storia. E ci trasmette un insegnamento analogo.

Sully