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Walter Mariotti

Musei: le sfide del direttore-manager

La figura di ultra-manager di museo ha sollevato tante polemiche. Abbiamo intervistato uno di quei «magici 20» che sono risultativi vincitori: Marco Pierini, Direttore della Galleria Nazionale dell’Umbria e del Polo Museale Umbro, per fare il punto post-riforma Franceschini.

Finite allora le polemiche sulla sua natura di concorso ibrido tra studiosi e manager?

Questo è prima di tutto un effetto di retorica, soprattutto giornalistica. Quel concorso è stato fondamentale e lo dico indipendentemente dalla mia persona.

Perché è stato così importante?

Perché per la prima volta in Italia alla direzione dei musei nazionali non sono stati nominati dei «designati», ma dei «selezionati» sulla base del CV, delle pregresse esperienze, del progetto elaborato per il museo per il quale concorrevano; la commissione, peraltro, era di un tal livello, che sarebbe stato difficile eccepire. Anche in questo abbiamo recuperato qualche distanza rispetto ai musei europei e americani.

Quali sono i maggiori problemi che ha trovato nel suo museo?

Forse il maggiore è quello che condivide con molti musei statali. La Galleria comunica poco e male e non è un problema di ordinamento o scientifico, ma di scarsa promozione. Non penso solo ai social media, su cui sto lavorando, ma a una nuova serie di strumenti per superare il livello dell’abc. A cui, in molti casi, siamo ancora legati.

La riforma Franceschini ha sollevato molte critiche. Le più feroci quelle di Tomaso Montanari, un suo collega ed editorialista di Repubblica, che fra le altre note polemiche ha focalizzato l’attenzione su una metafora rovesciata. Quella della casa-museo, di cui sarebbe stato costruito prima il tetto, cioè i direttori, delle fondamenta. Per Montanari insomma mancano sia una reale autonomia di bilancio sia più personale qualificato. È d’accordo?

 

Guardi, Montanari oltre che uno storico dell’arte di vaglia è un intellettuale a tutto tondo. Detto questo penso che potremmo avere un’idea più chiara solo quando la riforma sarà pienamente in atto. Al momento, se posso dirlo con una battuta, noi siamo un po’ come delle cavie. Stiamo sperimentando un modello nuovo.

A proposito di modelli e di sperimentazioni. Che cos’è un museo oggi?

Uno spazio civico dove il patrimonio culturale ereditato si conserva, si studia, si mostra, si confronta, si comunica, si rivitalizza e si rimette in gioco facendo capire a tutti – dagli abitanti della città dove il museo sorge fino al visitatore di cultura e lingua differenti – quanto ogni singolo oggetto d’arte sia in grado di raccontare non soltanto un pezzo di storia dell’arte, ma di storia religiosa, sociale, economica. È inoltre un luogo di scambio di ricerche e di esperienze, un luogo d’incontro, uno spazio da vivere e non da frequentare «per dovere».

E in questo scenario quale è il rapporto fra Perugia e il suo museo?

La Galleria Nazionale dell’Umbria è un museo davvero eccezionale. Non soltanto per i capolavori che conserva (da Duccio al Beato Angelico, da Piero della Francesca a Perugino) ma per il fatto di essere l’unico museo nazionale di questa rilevanza a essere ospitato nel Palazzo Pubblico della città. La pinacoteca nacque comunale, nel secondo Ottocento, e fu il Comune di Perugia stesso, ai primi del Novecento, a proporre la nazionalizzazione, offrendo il proprio palazzo perché il legame civico, affettivo, storico con la raccolta non si perdesse.

Torniamo al bilancio allora. Qual è quello della Galleria e quali sono i fondi che deve trovare?

Il bilancio annuale è di circa 3.000.000 di euro per la gestione corrente e le attività, che già nel 2016 – e ancor più nel 2017-19 – è stato e sarà integrato con fondi per lavori di ristrutturazione e di miglioria dell’edificio, dell’allestimento e dei servizi per un totale di ulteriori 6.500.000. Al momento sono i fondi per le attività quelli da cercare (e non tutti), mentre la gestione ordinaria e gli interventi straordinari sono garantiti.

Come si allinea la sua «politica» a quella dei grandi musei europei e americani, che restano l’ispirazione della riforma Franceschini?

Diciamo che per molti aspetti possiamo solo guardare questi modelli da lontano. Un museo come la Galleria di Perugia, con il numero e la qualità delle opere che si ritrova, sarebbe in Europa e in America diviso in dipartimenti, ciascuno con personale specializzato. Io, al momento, sono l’unico storico dell’arte della struttura… E neppure vi sono restauratori, amministrativi contabili, architetti. Naturalmente lavoriamo cercando di seguire gli stessi standard operativi, di conservazione (che abbiamo perlopiù elaborato noi!) e sugli studi storico artistici non credo che l’Italia sia ancora stata superata, tuttavia abbiamo davvero molta strada da fare.

Quali le maggiori difficoltà con la struttura che riscontra?

Il personale, appunto, insufficiente e – in gran parte – prossimo alla pensione. Poi gli impianti, ma a quelli stiamo provvedendo con una certa rapidità.

Quali sono le idee o i progetti che vuole perseguire in questo suo primo mandato?

Alla fine del mandato vorrei lasciare un museo rinnovato nell’immagine, nelle strutture, nell’impatto comunicativo ma immutato nello spirito.

Pensa di far convivere l’arte contemporanea all’interno della Galleria? E se sì, come?

 

Credo che un museo come quello perugino, nella terra di Leoncillo e Burri, non può non dare vita a una campagna di sensibilizzazione su questo fronte che tanto rappresenta la nostra cultura attuale, contemporanea appunto. Così come nel passato ha raccolto le opere del Perugino, bisognerà provare a intraprendere anche una strada di contemporaneità, che non ha meno valore simbolico e didattico.

A proposito di didattica e tecnicalità varie. Come si è mosso in questo suo primo anno di direttore manager?

Con molta umiltà, cercando prima di capire quale era la situazione. Altra via, francamente, non ne vedevo. Poi pensando a implementare progetti e partnership anche industriali.

Ce ne racconti qualcuno.

L’intento è quello di rafforzare le partnership istituzionali, come quella con la Regione Umbria e con il Comune, e di aprirci davvero al mondo dell’industria, non con l’intento di cercare semplicemente sponsor ma di trovare veri e propri partner, imprenditori che condividano la medesima idea della cultura e della sua diffusione, che traggano dalle opere della Galleria spunti di ogni tipo per il loro lavoro, per la comunicazione dei loro prodotti, per il radicamento ulteriore nel territorio, visto come rafforzamento di una radice che consente di crescere ed espandersi (potenzialmente) all’infinito.

Qual è l’ultima mostra che ha organizzato?

Si intitola Francesco e la Croce dipinta, l’ho curata personalmente e ho avuto il patrocinio della Basilica Papale e Sacro Convento di S. Francesco in Assisi e della Regione Umbria. Presenta nove capolavori, tutti di provenienza umbra, che seguono il rapido sviluppo dell’iconografia della croce in Occidente a partire dal XIII secolo attraverso l’evoluzione del Christus Patiens, il Cristo morto, col capo reclinato sulla spalla e gli occhi chiusi, dal modello di Giunta Pisano – riletto e affinato da Cimabue – a quello giottesco, dove il corpo non si flette più con eleganza ad arco ma pende dalla croce con tutto il suo peso. Non manca una tardiva, sebbene iconograficamente e artisticamente assai significativa, interpretazione dell’antico archetipo del Christus Triumphans, il Cristo vivo, con gli occhi aperti a significare il trionfo sulla morte, realizzato in ambito spoletino dal Maestro di Cesi.

Oltre alla rarità, qual è la caratteristica peculiare di questa mostra?

Offrire una panoramica significativa delle particolarità religiose, liturgiche e artistiche di questi manufatti. Alle croci in origine sospese in asse con l’altar maggiore, si accompagnano alcuni esemplari coevi di minori dimensioni, la cui funzione spaziava dalla devozione privata all’impiego nelle processioni, e per questo dipinti da ambo i lati. Straordinarie.

Una domanda diversa, ma non meno significativa. Quali sono stati i libri della sua formazione?

Come sempre è difficile selezionare i libri che ci hanno maggiormente formato. Devo dire che la letteratura, per quanto mi riguarda, ha un ruolo maggiore rispetto alla saggistica, anche a quella di argomento storico artistico. Andando a ruota libera direi subito i grandi romanzi di formazione otto e novecenteschi (su tutti L’educazione sentimentale e La montagna incantata), poi Dante, Petrarca, Boccaccio, classici «minori» del novecento come Ernesto Regazzoni e Giancarlo Fusco. E poi i preferiti, quelli che si rileggono in continuazione e a cui ci si aggrappa per un conforto, un’idea, un momento di assoluto piacere e che per me sono Sciascia, Bufalino, Savinio, Gozzano, Montale e Caproni. Per la storia dell’arte mi sono abbeverato essenzialmente alla chiarezza di Enzo Carli, all’altissima prosa di Cesare Brandi, a quei saggi che oltre a raccontare una ricerca trasmettono un metodo: La pecora di Giotto di Luciano Bellosi, La maniera italiana di Giuliano Briganti, Neoclassicismo di Hugh Honour. 

(Marco Pierini è Direttore della Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia e Direttore del Polo Museale dell’Umbria dal primo ottobre 2015)

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