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7 minuti
A cosa si può rinunciare per avere la garanzia di lavorare?
7 minuti
Regia: Michele Placido
Int.: Ottavia Piccolo, Fiorella Mannoia, Ambra Angiolini
Italia, 2016
Non verrà licenziato nessuno. Non ci saranno lavoratori o lavoratrici in esubero. A Latina, la vendita dell’azienda tessile Varazzi a una multinazionale francese non implicherà nessuno di quei tagli dolorosi che spesso si accompagnano a un processo di acquisizione o di ristrutturazione aziendale. Le operaie che temevano per il loro posto di lavoro possono dormire sonni tranquilli: nessuna rischia di restare in mezzo alla strada. C’è una sola, piccola richiesta che la nuova proprietà sottopone al vaglio del Consiglio di fabbrica: la riduzione da 15 a otto minuti del tempo concesso ai dipendenti per la pausa pranzo. Ogni operaia dovrà in pratica rinunciare a sette minuti al giorno. Solo sette minuti. Nulla, in cambio della garanzia della salvaguardia del posto di lavoro. La nuova proprietà vuole però il benestare dei dipendenti e chiede al Consiglio di fabbrica di riunirsi per approvare o respingere quell’ipotesi di accordo. Guidate dalla sindacalista Bianca (un’intensa, profonda, lacerata Ottavia Piccolo), che ha ricevuto dalla direzione l’incarico di riferire alle compagne, le 11 operaie che fanno parte del Consiglio si riuniscono in sala mensa: hanno tempo fino alle 17 per dare una risposta alla direzione. E se all’inizio quasi tutte sono per approvare in fretta l’accordo, valutando la richiesta assolutamente ragionevole («In fondo ci chiedono solo sette minuti…!», con il passar del tempo si fanno avanti i dubbi e le perplessità. E nel gruppo si scontrano visioni e prospettive contrastanti che sfociano presto nel conflitto.
7 minuti, il bel film che Michele Placido ha tratto dall’omonima pièce teatrale di Stefano Massini, è stato da più parti paragonato al capolavoro di Sidney Lumet La parola ai giurati (1957): in entrambi i casi un gruppo di persone è chiuso in una stanza e deve prendere una decisione importante. Nel film di Lumet sono i 12 membri, tutti maschi, della giuria popolare di un tribunale americano che deve decidere se mandare o no sulla sedia elettrica un ragazzo di 18 anni imputato di omicidio; qui – nel film di Placido – sono le 11 componenti, tutte donne, del consiglio di fabbrica di cui si è detto. In un caso come nell’altro, all’inizio c’è un unico personaggio (Henry Fonda nel film di Lumet, Ottavia Piccolo in quello di Placido) a sostenere una tesi che in seguito anche altri faranno propria nello sviluppo dell’azione. La differenza di fondo è che La parola ai giurati è un film sul processo decisionale, mentre 7 minuti indaga piuttosto i modi e le forme con cui un determinato fatto viene percepito e metabolizzato dai vari membri di un gruppo. In questa prospettiva si offre come racconto esemplare delle dinamiche relazionali e dei conflitti interpersonali nel mondo del lavoro contemporaneo. Ne discutono Severino Salvemini e Gianni Canova.
S.S. A me pare che 7 minuti sia prima di tutto un film molto interessante sul tema delle dinamiche di gruppo. Le 11 protagoniste sembrerebbero a prima vista un gruppo molto omogeneo e coeso, mentre in realtà hanno vite, ruoli e sensibilità diversissimi. C’è chi è madre e chi è single; c’è chi è operaia e chi impiegata; c’è chi è italiana e chi è straniera; c’è chi ha fatto un percorso ideologico lungo nei confronti del lavoro e del rapporto con il «padronato» e chi invece è molto più qualunquista e pragmatica nel valutare il rapporto con il capitale; ci sono le neoassunte (cioè le più a rischio di precariato) e ci sono le veterane (che rischiano a loro volta di essere «rottamate»). E ognuna di loro finisce per avere le proprie ragioni nei confronti del problema che emerge e la propria razionalità nel difendere una prospettiva d’azione.
G.C. Ognuna di loro, proprio per questo, legge e codifica in modo diverso la proposta della direzione aziendale (lo «stimolo esterno»). Più che un film sulla decisione, 7 minuti mi sembra un film sulla percezione…..
S.S. …e infatti il copione di Stefano Massini è davvero magistrale nel mostrare tutti gli elementi che condizionano la percezione: il contesto e il momento storico (che portano le operaie a drammatizzare in modo molto spinto una proposta che probabilmente racchiude solo una richiesta di maggior produttività); la dimensione emotiva (le lavoratrici che godono di minore «impiegabilità» sono le più deboli e vorrebbero chiudere subito il processo decisionale, onde evitare derive di precarizzazione); il grado di strutturazione e di completezza delle informazioni (la scarsità delle informazioni ricevute da Bianca, la rappresentante sindacale, e il dubbio che ella abbia «patrimonializzato» alcune informazioni importanti per sé, senza condividerle con il gruppo), aumenta l’incertezza del processo percettivo e finisce per consentire un caleidoscopio di molteplici interpretazioni divergenti.
G.C. La proposta della nuova direzione aziendale si fonda su un presupposto molto forte: riesce a semplificare la complessità. Le operaie devono fare il percorso inverso: in poco tempo, devono riuscire a cogliere la complessità e la molteplicità di questioni implicate nella semplice proposta di ridurre la pausa di solo sette minuti. Proprio perché molto semplice e in apparenza molto ragionevole, la proposta riesce a dividere il gruppo, a rompere la coesione delle operaie, spingendole ad essere insofferenti verso chi invoca una riflessione più attenta, analitica e meditata. Il rifiuto di approfondire, la volontà di chiudere in fretta l’accordo, nasce da una sorta di esorcismo preventivo: dal rifiuto di doversi interrogare più in profondità sui rischi che la decisione assunta può implicare.
S.S. In questo processo un ruolo fondamentale è svolto dal carisma della leader Bianca: non è con la razionalità che convince le compagne. È con la sua capacità di essere credibile, con l’autorevolezza, la coerenza e la fiducia che si è conquistata nel corso di una vita. È lei che riesce a far argine alla pressione sociale del gruppo, e a far cambiare opinione anche ad alcune delle compagne.
G.C. Esattamente come faceva il personaggio di Henry Fonda in La parola ai giurati. Mi piace il fatto che lui e Bianca siano i personaggi più «eleganti» dei rispettivi gruppi: come se il fatto di essere «pensanti» conferisse loro anche una compostezza, una sobrietà e uno stile. Beninteso: sono eleganti perché pensano, non viceversa. Il pensiero, il dubbio, la fatica del ragionamento e dell’interrogazione continua conferiscono loro una «misura» che gli altri personaggi – di volta in volta impulsivi, sguaiati, superficiali, disperati – non hanno e forse non possono avere.