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Valori e organizzazione, fattori di «vantaggio competitivo»
Il mio libro preferito? Difficile dirlo, soprattutto se di libri si è appassionati. I libri sono un po’ come i quadri, o meglio i pittori: più ne conosci, meno facile è dire quali preferisci, quale sia quello che ti prende di più. La conoscenza in questi campi è inversamente proporzionale al giudizio. Se uno ha visto solo Picasso e Piero della Francesca, può scegliere facilmente tra l’uno e l’altro, ma come scegliere tra Caravaggio, Goya e Guercino? È li che comincia il bello e si aprono le sfumature e i distinguo. Al momento sto terminando la lettura di Un cappello pieno di ciliegie di Oriana Fallaci e posso dire di non aver mai letto niente di simile. Spesso, con i libri, il capolavoro è dove non ti immagini. La Fallaci ha avuto come sappiamo molte stagioni, non tutte fortunate, ma è nota soprattutto come la paladina dell’Occidente contro l’Islam, e per questo ha diviso i suoi lettori e gli Italiani, come sempre aveva fatto, del resto. Ma questo libro è una sorpresa assoluta. Un’opera imponente dove l’autrice ripercorre in modo magistrale la saga della sua famiglia dal 1773 e il 1889 offrendoci un affresco straordinario dell’Italia di quegli anni. Il lavoro di ricostruzione storica è meticoloso e appassionato allo stesso tempo. Tant’è che la gestazione dell’opera ha preso più di dieci anni, interrotta proprio da quell’articolo per il Corriere della Sera, La rabbia e l’orgoglio, scritto di getto all’indomani del crollo delle Torri gemelle. In quest’ultimo invece, uscito postumo, siamo su un altro registro. E bastano le prime parole per capirlo:
«Ora che il futuro s’era fatto corto e mi sfuggiva di mano con l’inesorabilità della sabbia che cola dentro una clessidra, mi capitava spesso di pensare al passato della mia esistenza: cercare lì le risposte con le quali sarebbe giusto morire. Perché fossi nata, perché fossi vissuta, e chi o che cosa avesse plasmato il mosaico di persone che da un lontano giorno d'estate costituiva il mio Io».
Domande che prima o poi tutti ci facciamo e a cui la Fallaci riesce a rispondere con una valenza universale.
Non è un caso che questo libro mi abbia preso così tanto. Il romanzo storico è il mio genere preferito e, a tale proposito, non posso non citare un altro grande scrittore italiano, Sebastiano Vassalli. Il suo capolavoro è considerato La Chimera, dove l’autore riporta alla luce una brutta storia dei primi del ’600: quella di Antonia, una trovatella del novarese che sarà accusata dall’Inquisizione di stregoneria e sarà poi giustiziata. Ne viene fuori un ritratto preziosissimo di un’Italia agricola tardo-medioevale dove, almeno in quelle zone, la ricchezza si misura in sacchi di riso e il potere della Chiesa è pervasivo e indiscutibile. Ma di Vassalli il mio testo preferito è Terre Selvagge. Qui si narra con prosa avvincente della vittoria dell’esercito romano sui Cimbri, avvenuta nel vercellese intorno all’anno 100 a.C., in quella che è nota come «battaglia dei Campi Raudi». Tra le popolazioni germaniche quella dei Cimbri è una delle più fiere e feroci, che ha fatto della guerra a Roma una ragione di vita. Eppure nulla potrà contro l’organizzazione delle legioni romane guidate da Gaio Mario e Lucio Cornelio Silla: con più di 140.000 morti e 60.000 prigionieri i Cimbri saranno annientati e di fatto termineranno di esistere come popolo. Quella dell’Impero romano è una storia affascinante, da cui possono trarsi importanti lezioni per l’oggi. Per saperne di più senza annoiarsi bisogna ricorrere a un altro autore di successo, Valerio Massimo Manfredi, i cui romanzi ci forniscono informazioni precise su come era strutturato l’esercito romano e quali fossero le tecniche di combattimento. Gli ingredienti essenziali che lo rendevano una forza quasi invincibile mi pare fossero due. Il primo è la virtus, che per un soldato significava soprattutto l’attaccamento alla patria e la fedeltà ai propri compagni e al proprio comandante, ma che in realtà era un concetto più ampio, valido per ogni cittadino romano: quell’insieme di virtù che ogni uomo deve possedere e sulle quali si regge l’intera nazione. L’altra è l’organizzazione rigorosa dell’esercito, che ne moltiplica la capacità, consentendogli di prevalere su nemici molto più dotati sul piano della forza e della resistenza fisica.
Valori e organizzazione. Questi, facendo un salto avanti nel tempo di oltre duemila anni, sono gli ingredienti mancanti al nostro sistema paese, ciò che lo rende di fatto un «non-sistema». Siamo ancora una nazione divisa, che non si riconosce chiaramente in dei valori comuni, un’Italia dei mille campanili che fa fatica a fare squadra a tutti i livelli. Non c’è da meravigliarsi se da trent’anni la crescita economica è rallentata e poi si è arrestata, se da noi la produttività ristagna mentre in altri paesi cresce, se in quello che si definisce il Belpaese le grandi città sono dei luoghi caotici, dove la vita di tutti i giorni è sempre più difficile. Da economisti siamo portati a pensare che il futuro migliore – nel gergo: la crescita nel lungo termine – dipenda dalle innovazioni tecnologiche, il che è in parte senz’altro vero. Eppure Oriana Fallaci utilizzava ancora una Olivetti Lettera 32, il che non le ha impedito di partorire dei capolavori. Io penso che il malessere italiano dipenda prima di tutto da fattori valoriali, sociali e istituzionali. C’è un Nord contro il Sud, un settore pubblico nemico del cittadino e delle imprese, un’agricoltura che si batte contro l’industria delle costruzioni piuttosto che guardare ai propri problemi interni, delle amministrazioni locali che, ritenendosi di pari rango del potere centrale, ne disattendono le direttive e ostacolano progetti infrastrutturali di interesse generale. In un contesto di questo tipo ogni intrapresa economica non è solo un rischio, ma una vera e propria avventura. I nostri «capitani» d’impresa più che coraggiosi sono forse degli incoscienti, quando pensano che valga ancora la pena restare anziché fuggire all’estero.
Valori e organizzazione non sono solo il «cemento armato» che tiene unito un popolo, che «fa» un popolo: sono a mio avviso i fattori chiave di quello che, da Michael Porter in poi, è noto come «vantaggio competitivo» delle nazioni. Guardiamo a paesi come gli Stati Uniti, la Germania, la Francia e persino la Spagna (un’economia certamente meno dotata di noi in termini di struttura industriale), tutte realtà sorte come noi dall’aggregazione di regioni o stati inizialmente indipendenti ma i cui popoli si riconoscono chiaramente in un’identità comune e dove l’organizzazione della società civile e degli apparati istituzionali è decisamente migliore della nostra. Vogliamo parlare della situazione in cui versa oggi la città metropolitana di Roma, che è poi la nostra capitale? Penso che per tornare a crescere, migliorare il nostro benessere e tenore di vita, sedere a testa alta nel consesso delle grandi nazioni, si debba guardare alla Roma del passato, al collante che ne fece l’impero più grande e potente del mondo. Dobbiamo prima di ogni altra cosa recuperare una nostra identità intorno a dei valori condivisi e darci una molto migliore ed efficiente organizzazione dello stato e della società civile.
(Testo raccolto da Walter Mariotti)