Archivio

Andrea Sironi

Il valore di un’esperienza imprenditoriale

Verso #START-UP DAY 2016

Viviamo un periodo di grandi cambiamenti e altrettanta incertezza.

Come il caso Brexit ha recentemente dimostrato, la capacità delle istituzioni e dell’intellighentsia in senso lato di influenzare le scelte e i comportamenti degli individui appare quanto mai modesta.

I processi decisionali nell’era digitale si trasformano secondo traiettorie ancora da indagare. Basti pensare che per gli americani nella fascia 18-35 anni Facebook è la prima fonte di informazione in campo politico ed economico.

Per questi stessi giovani – e per i millennials in particolare – anche l’approccio alla carriera manageriale, sia essa in imprese private o in istituzioni, sta mutando radicalmente.

In parte a causa di fattori strutturali: le competenze devono aggiornarsi rapidamente, la concorrenza per i migliori talenti è globale, il ventaglio delle opportunità di crescita professionale spesso si sviluppa più in orizzontale (passaggi da un’azienda all’altra, da un settore all’altro, da una funzione all’altra) che in verticale come era un tempo.

In parte a causa di un mutamento nelle preferenze individuali: in misura molto superiore al passato, i ventenni di oggi si rapportano alla carriera con lo spirito di uno skipper, che preferisce governare in autonomia la propria imbarcazione, sfidando i venti, le correnti, gli imprevisti, ma avendo – in cambio – la libertà di scegliere la rotta e di attraccare nelle baie più belle, dove le navi più grandi non possono arrivare.

Per formare i manager del futuro è essenziale tenere ben presente questi cambiamenti, che non riguardano solo le business school, ma anche le aziende, che devono saper attrarre e ritenere i migliori talenti.

Per rispondere a questa sfida i programmi e le metodologie didattiche stanno subendo un’evoluzione a tappe forzate: dai MOOCs, che consentono di costruire un curriculum à la carte, agli insegnamenti per migliorare il time management, la comunicazione verbale, la capacità di lavoro in team o il pensiero critico. Skill, questi ultimi, recentemente emersi in un sondaggio condotto da Infosys su una platea di 8700 giovani tra i 16 e i 25 anni in nove paesi[1] come i quattro principali per poter conseguire una carriera di successo.

Esiste però un’ulteriore area da presidiare con maggior incisività, in particolare nel nostro paese, anche da parte del sistema dell’istruzione superiore: quella finalizzata allo sviluppo dell’imprenditorialità giovanile.

Favorire nei giovani lo spirito di intrapresa, la ricerca di opportunità per mettere alla prova la propria creatività e la propria determinazione, rappresenta una sfida importante per chi dovrà muoversi nel mondo del lavoro con lo spirito di uno skipper. Indipendentemente dalla tipologia di carriera prescelta, infatti, le doti tipiche di un imprenditore (valutare e assumere rischi, innovare, reagire rapidamente a eventi imprevisti, negoziare con tenacia) diventeranno sempre più necessarie anche per i manager.

I giovani che avviano progetti imprenditoriali si arricchiscono di esperienze che saranno estremamente utili nell’arco della carriera futura, anche se le scelte o gli eventi li porteranno in seguito a diventare manager, civil servant o ancora a dedicarsi a carriere radicalmente differenti come quella universitaria.

Non è questa la sede per entrare nel merito del dibattito «Imprenditori si nasce o si diventa?», che lasciamo a coloro che studiano questi temi attraverso analisi rigorose.

C’è però una domanda di portata più generale dal punto di vista educativo a cui, come università e business school, siamo chiamati a dare una risposta: ha senso creare un contesto che incoraggi i giovani a seguire la vocazione imprenditoriale?

Dal nostro punto di vista sì, dato che anche in questo ambito una formazione di qualità può fare la differenza. Se si esaminano infatti i primi 25 MBA del ranking FT su entrepreneurship emerge un dato interessante: la percentuale di alumni che, a tre anni dalla graduation, ha avviato la propria impresa è pari al 23 per cento, contro il 15 per cento dei programmi fuori dai top 25.

Le modalità tecniche con cui raccogliere questa sfida sono svariate, curriculari ed extra-curriculari: l’essenziale è tuttavia offrire ai progetti imprenditoriali e a coloro che li promuovono gli strumenti e le occasioni per confrontarsi con il mondo esterno – investitori, clienti, partner, mentor ecc.

Oltre alle competenze, al metodo, ai soft skill, che insegniamo nei nostri programmi, una business school può fare qualcosa di più a questo fine: arricchire il capitale sociale dei giovani che vogliono tentare, per un periodo o per tutta la vita, l’avventura imprenditoriale, e stimolarli a mettersi alla prova. Comunque vada, questi giovani acquisiranno un asset intangibile che darà i suoi frutti nel lungo termine. Posso affermarlo per esperienza diretta. Nei miei anni da studente universitario ho infatti avuto la fortuna di collaborare per un breve periodo a un progetto imprenditoriale poi tradottosi in una realtà di successo, di recente acquisita da un fondo di private equity. Si è trattato di un’esperienza significativa, fatta di intenso lavoro e accanite discussioni, la quale mi ha consentito di imparare e arricchirmi, permettendomi di affrontare con maggiore consapevolezza le sfide successive.



[1] Si tratta di Australia, Brasile, Cina, Francia, Germania, India, Regno Unito, Stati Uniti, Sudafrica.

Andrea Sironi DEF