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Ho ucciso Napoleone
Manager si nasce o si diventa?
Licenziata in tronco dopo esser rimasta incinta del suo capo, la giovane manager di un’azienda farmaceutica cerca la propria rivincita applicando le sue abilità strategiche e organizzative alla costruzione della sua vendetta. Acido e grottesco, Ho ucciso Napoleone di Giorgia Farina entra ed esce dagli stereotipi legati all’immagine della donna in carriera, offrendoci il cinico ritratto di una manager disposta a tutto pur di arrivare in cima.
Ho ucciso Napoleone
Regia: Giorgia Farina
Int.: Micaela Ramazzotti e Libero De Rienzo.
Italia, 2015.
Cinica, fredda, determinata. Disposta a tutto pur di far carriera. Rigorosamente in tailleur scuro, tacco 12, scarpe fetish. E con un’acconciatura di capelli che ricorda quella della strega cattiva di Maleficent. In Ho ucciso Napoleone di Giorgia Farina (2015) Micaela Ramazzotti appare così: quasi lo stereotipo vivente della donna-manager secondo la percezione che ne ha la maggior parte degli italiani. In effetti Anita – questo il nome del personaggio – è l’incarnazione emblematica della donna in carriera: single, spregiudicata, tenace, a suo modo spietata, ha rinunciato a tutto pur di scalare i vertici dell’azienda farmaceutica per cui lavora. Responsabile dell’ufficio Risorse Umane ha spiato colleghi e dipendenti cercando di cogliere in ciascuno il punto debole, il tallone d’Achille, il segreto ricattabile. Poi ha praticato alleanze e congiure, ed è pure diventata l’amante clandestina del suo capo (sposato e con due figlie…) per usare a fini di carriera anche i momenti di intimità con lui. Quando è quasi sul punto di raggiungere il suo obiettivo, ecco però l’imprevisto che fa crollare tutto: Anita scopre di essere incinta e lo dice al suo capo, padre del nascituro, il quale ha come prima reazione immediata quella di fare in modo che venga licenziata. In tronco, senza neanche «giusta causa». Così lei si ritrova in strada, con un bebè in arrivo, con una vita da ricostruire e con un unico obiettivo da cui ricominciare: la vendetta.
Rispetto ai toni e ai registri dominanti del cinema italiano, Ho ucciso Napoleone ha il pregio di evitare ogni moralismo e il coraggio di mettere al centro della scena un’eroina politicamente scorretta, che giudica la maternità alla stregua di un incidente di percorso e che applica le sue abilità strategiche per raggiungere ciò che più desidera: prima il potere, poi la vendetta. È feroce, Anita. Feroce come raramente capita di vedere nei personaggi femminili del cinema italiano. Più vicina – se vogliamo – all’intransigenza di certe manager del cinema americano (Il diavolo veste Prada) che alla bonomia delle rare manager del nostro cinema (si pensi anche solo alla Sabrina Ferilli di Tutta la vita davanti). Vicina, nel suo cinismo, anche alle vere manager che sempre più numerose affollano i vertici delle aziende italiane? Ne discutono Severino Salvemini e Gianni Canova.
S.S. Indubbiamente, Ho ucciso Napoleone ci offre la messinscena di uno stereotipo. Anzi: prende gli stereotipi sociali che circondano la figura della donna manager e ci costruisce sopra un personaggio. Anita è fredda e lo teorizza apertamente («essere fredda e anaffettiva è un traguardo che ho conquistato faticosamente»). È razionale, calcolatrice, astuta. Usa metafore di ordinaria casalinghitudine («sono fredda come un sofficino surgelato») solo per prendere le distanze dal modello della donna casalinga che aborre.
G.C. Non solo. La sua stereotipizzazione passa attraverso tutto il body language che una brava attrice come Micaela Ramazzotti costruisce attorno al personaggio: il modo in cui ticchetta nervosamente con le dita a unghie smaltate appena si trova in una situazione di tensione e di stress (cioè quasi sempre), il modo in cui cammina in equilibrio sui suoi tacchi da equilibrista, il modo in cui dardeggia sguardi verso colleghi e superiori….Tutto disegna il quadro coerente di una donna che vede nella famiglia un punto debole e crede che la solitudine sentimentale sia un prerequisito necessario per la carriera. Realistico? Secondo me non è questo il punto. La regista Giorgia Farina sceglie volutamente il registro del grottesco. Amplifica, esagera, distorce. Usa luci e colori tutt’altro che «reali». E tuttavia riesce a sintetizzare e a trasmettere – con la sua storia – alcuni dei luoghi comuni con cui la donna manager viene percepita nel nostro paese.
S.S. Anche l’ambiente di lavoro viene tratteggiato in modo stereotipato, fra paradossi organizzativi, intrighi da corridoio e ossessioni competitive. Penso anche solo alla sequenza in cui tutti i maschi, all’unanimità, decidono il licenziamento di Anita. Per converso, penso invece alla solidarietà fra le donne che si ritrovano ai giardinetti e che a poco a poco tessono intorno ad Anita una vera e propria rete di protezione. All’inizio sembrano quasi una corte dei miracoli, sono tutte nevrotiche, esasperate, fallite, ma poi a poco a poco lasciano emergere tratti di amicizia femminile che contrasta con l’idea diffusa secondo cui le donne fra loro si sentono sempre e solo rivali….
G.C. Vero. E qui direi che il film di Giorgia Farina lo stereotipo lo rovescia, non lo accondiscende. Ed è un altro dei pregi del film: la capacità di infilarsi dentro i luoghi comuni per saggiarne la tenuta sociale, a volte confermandoli, altre volte invece mettendoli in discussione. Quel che mi colpisce, piuttosto, è che tutti i personaggi sembrano avere i medesimi obiettivi: penso anche solo all’apparentemente timido Biagio, l’avvocato discreto che sposa Anita e poi la frega, o cerca di fregarla, con l’obiettivo di dimostrare a sua madre – a sua volta donna manager, senz’altro interesse che il lavoro – di essere diventato più bravo di lei. Sono tutti cinici, i personaggi del film, tutti o quasi. Restano escluse le donne. E la strana famiglia allargata, dominata dalla confusione di ruoli e di legami, in cui Anita si ritrova nel finale.
S.S. Ma nel finale del film, quando viene riammessa nell’azienda, Anita è ancora quella dell’inizio o l’esperienza l’ha cambiata? La vediamo andare al lavoro spingendo il passeggino, è vero. Ma il look, le scarpe, la falcata e la pettinatura sono le stesse dell’incipit. Del resto, lo ribadisce anche lei: «Io non faccio così, io sono così». Quasi a conferma dell’idea che cinismo e attitudine al comando siano una vocazione caratteriale e non il frutto di un percorso di formazione. Più che una scelta, insomma, quasi un destino. Ed è anche questo, a ben guardare, uno stereotipo.