Archivio
La rieducazione sentimentale delle imprese
Il 20 aprile scorso è avvenuto il lancio sperimentale di Starship, il razzo più potente mai costruito, che dovrebbe riportare l’uomo sulla luna e forse su Marte. Il lancio è stato seguito in diretta da milioni di persone e ha avuto una copertura mediatica molto elevata. A pochi minuti dal decollo, il razzo ha però perso il controllo ed è stato fatto esplodere. Nella ormai lunga storia dei voli spaziali non è la prima volta che un lancio non abbia successo. Niente di cui stupirsi quindi, se non fosse che, subito dopo l’esplosione, i dipendenti di SpaceX, l’azienda fondata da Elon Musk, hanno reagito con un lungo applauso. Le immagini ci mostrano volti sorridenti, mani alzate in segno di approvazione, voci di entusiasmo.
Se ci fossimo collegati in quel preciso istante, avremmo dato per scontato che il lancio fosse riuscito. La reazione positiva all’insuccesso ha generato quindi una dissonanza cognitiva, in cui diventa cioè difficile conciliare due fenomeni contrastanti e apparentemente incompatibili. Perché i dipendenti hanno reagito in questo modo di fronte a un esito negativo? In caso di esito positivo ci saremmo aspettati le stesse reazioni. Che significato dovremmo quindi dare al fatto che due esiti opposti possano generare le stesse emozioni?
Una possibile risposta è arrivata direttamente dall’azienda, in uno dei suoi tweet. Di fatto, ha sostenuto che è sbagliato interpretare l’esito come un insuccesso, il lancio deve invece essere considerato un risultato positivo (a real accomplishment), in cui il successo è rappresentato proprio da ciò che potranno apprendere su che cosa non ha funzionato. Questa risposta è coerente con la cosiddetta blameless culture, una cultura particolarmente diffusa in aziende high-tech come Google o Amazon e che si riferisce a un ambiente aziendale in cui gli errori e i problemi sono affrontati senza cercare di attribuire la colpa o punire le persone coinvolte. Un’azienda che crede nel «fallimento come opzione» lo riconosce come parte del processo di apprendimento. Ogni esperimento non riuscito fornisce all’azienda un feedback prezioso su cui attingere per decidere come andare avanti e che può essere utilizzato per raggiungere il successo.
In passato, anche la Nasa ha sempre riconosciuto l’importanza dei learning failures[1]. Nello stesso tempo però ribadiva che «non è possibile considerare accettabile il fallimento sotto qualsiasi forma. Il successo deve essere cercato al primo tentativo e ogni sforzo ragionevole è volto a raggiungere tale risultato». L’insuccesso poteva cioè essere fonte di apprendimento, ma non doveva trasformarsi in occasione di festeggiamento. La blameless culture non si fonda quindi sul solo riconoscimento dell’errore come parte del processo di apprendimento, ma anche e soprattutto sul concetto di psychological safety[2]. La creazione cioè di un ambiente organizzativo che, proprio per non colpevolizzare il fallimento e scoraggiare quindi la partecipazione dei dipendenti, lo celebra come evento positivo. La manifestazione di tutto questo ha però alcuni aspetti paradossali: per evitare di generare sentimenti negativi è necessario creare e riprodurre artificialmente emozioni collettive positive.
Il controllo delle emozioni dei dipendenti è una caratteristica storica di tutte le organizzazioni. La manipolazione delle emozioni rappresenta invece una caratteristica relativamente più recente. La società industriale (anche quella avanzata descritta da Marcuse negli anni Sessanta) ha inizialmente teso a svuotare il lavoro dei suoi elementi affettivi ed espressivi e a renderlo una relazione puramente strumentale, in cui il dipendente viene definito da quest’unica dimensione[3]. Progressivamente le imprese si sono sempre più concentrate sulle emozioni dei dipendenti, abbandonando una visione dell’ambiente di lavoro esclusivamente pragmatica. La soddisfazione e il benessere emotivo dei dipendenti sono diventati centrali.
Un conto però è che le imprese siano fonte di tali emozioni. Cosa diversa è quando diventano luogo in cui specifiche emozioni, non solo possono ma devono essere manifestate e rappresentate collettivamente. È ormai da tempo che le imprese ci hanno abituato a eventi aziendali collettivi per creare senso di appartenenza e facilitare l’interazione tra i dipendenti, un misto di presentazioni modello TedX, inframmezzate da attività (spesso ludiche) di gruppo e aperitivi, in cui è implicitamente richiesto che tutti dimostrino entusiasmo e divertimento. Come in altri casi, si tratta di emozioni che l’impresa ormai esige per definizione e che autorizzano il datore di lavoro a sottoporre i dipendenti a pressioni sempre maggiori[4]. Ma qui la logica della congruenza è almeno fatta salva: progetto un contesto per farti divertire e mi aspetto di ottenere emozioni coerenti. Se poi i dipendenti si divertano effettivamente o fingano di farlo per adattarsi al contesto è un’altra questione.
Cosa diversa è quando viene richiesto di manifestare emozioni collettive opposte a quanto normalmente atteso, con il fine di creare un clima di sicurezza che protegga i dipendenti da sofferenze psicologiche e traumi derivanti dalla percezione negativa del fallimento. Per evitare un’emozione negativa vengono quindi create false emozioni positive collettive. Il risultato è non solo grottesco, ma anche inquietante. Il pericolo è non solo nel fatto che i dipendenti subiscono il dominio di tale manipolazione, ma che i manager si arrendano a un sistema ideologico fondato sulla psychological safety e sulla costruzione artificiale e grottesca di ambienti emotivamente sicuri. Tutto questo, tra l’altro, avviene nello stesso momento in cui le imprese hanno fatto propria la retorica dell’autenticità: prodotti onesti, luoghi autentici dove si respira un clima di sincerità e in cui è importante essere se stessi[5].
Nessuno contesta la desiderabilità di ambienti di lavoro che procurino soddisfazione, e tuttavia, è necessario riconoscere che in realtà generano anche delusione e insoddisfazione. L’obiettivo di un’impresa non dovrebbe essere quello di contestare la delusione, di negarne l’esistenza o la rappresentazione. La delusione è infatti un elemento centrale dell’esperienza umana[6]. In quanto occasione di apprendimento e riscatto, la delusione è la contropartita naturale della propensione dell’uomo a concepire prospettive e aspirazioni grandiose. La Nasa ne è forse l’esempio più evidente. Senza nascondere la delusione dei propri fallimenti è riuscita a far atterrare gli astronauti sulla luna, realizzare le missioni dello Space Shuttle, svolgere un ruolo di primo piano nella costruzione e nel funzionamento di una stazione spaziale, mettere in orbita un telescopio spaziale incredibilmente potente e inviare diversi rover su Marte. Oggi, con l’ausilio di un modello manageriale totalmente opposto, non siamo ancora in grado di riportare l’uomo sulla luna. E, a quanto pare, non riusciamo nemmeno a far decollare con successo un razzo in grado di orbitare intorno alla terra. Siamo però felici, o almeno alcuni sembravano esserlo.
Il dossier di questo numero è dedicato al lusso e non è un caso che faccia seguito al dossier precedente dedicato alla povertà. È opportuno però ricordare le parole di Coco Chanel: «alcune persone pensano che il lusso sia l’opposto della povertà. Non lo è. È l’opposto della volgarità». L’industria del lusso è sicuramente una componente molto importante per l’economia e il tessuto industriale, soprattutto nel nostro Paese. Il dossier ci aiuta a comprenderne le caratteristiche, la complessità e le nuove frontiere. Alle nuove frontiere dei mondi digitali è invece dedicato il focus del DEVO Lab di SDA Bocconi. Buona lettura!
*Fabrizio Perretti è Direttore di E&M e Professore Ordinario di Sociologia Aziendale presso l’Università Bocconi.
[1] https://history.nasa.gov/SP-4211/ch10-4.htm
[2] Si veda, per esempio, A.C. Edmonson, The Fearless Organization, Boston, Harvard Business School Press, 2019, trad. it., Organizzazioni senza paura, Milano, F. Angeli, 2020.
[3] H. Marcuse, (1964). One Dimensional Man; Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society, Boston, Beacon Press, 1964, trad. it., L’uomo a una dimensione, Torino, Einaudi, 1967.
[4] Si veda, a questo riguardo, il recente articolo dell’Economist, «Corporate Summer Camps», 27 maggio-2 giugno 2023.
[5] Si veda G. Lipovetsky, La fiera dell’autenticità, Venezia, Marsilio, 2022.
[6] Si veda, a questo riguardo, A.O. Hirschman, Shifting involvements: Private interest and public action, Princeton University Press, 2002, trad. it., Felicità privata e felicità pubblica, Bologna, Il Mulino, 2003.
Foto iStock / CHBD