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Francesco Daveri

Economia e politica: relazione pericolosa?

Un colloquio con Tommaso Nannicini

Il rapporto tra scienze economiche e policy-making è tradizionalmente uno dei grandi temi di dibattito tra gli economisti. Ne hanno discusso per Economia & Management Francesco Daveri, professore presso l’Università Cattolica di Piacenza e docente alla SDA Bocconi, e Tommaso Nannicini, professore di Economia Politica all’Università Bocconi, che dai primi mesi del 2014 ha il ruolo di consigliere economico del presidente del Consiglio Matteo Renzi ed è appena stato nominato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Il video completo del dialogo è disponibile qui.

In virtù del suo ruolo, Tommaso Nannicini ha avuto modo di seguire tanti dossier importanti, tra cui il Jobs Act e la stesura della Legge di stabilità 2016 da poco approvata dal Parlamento. Per un economista, un simile impegno da «consigliere del principe» rappresenta un buon modo per dare il proprio contributo alla società? Vari economisti hanno sostenuto che il compito principale di un economista dovrebbe essere quello di pensare, fare ricerca e insegnare. Il rischio è che il tempo dedicato alla politica sia sprecato. Tommaso Nannicini non è il primo a prestare il suo tempo alla politica: solo per fare alcuni esempi, prima di lui Roberto Perotti, Carlo Cottarelli e Enrico Bondi – tutte persone di grande successo in università, nelle organizzazione internazionali o in azienda – hanno assunto i panni dei tecnici al servizio della politica. Eppure hanno tutti rinunciato. Ci si può allora domandare se sia possibile individuare un identikit di chi sia più adatto a prestare il suo tempo alla politica. Non esiste una risposta valida per tutti. La passione conta: c’è chi ha passioni più speculative e chi ha interesse a sporcarsi le mani per vedere se le teorie funzionano quando messe in pratica. Tra quelli che si cimentano, la capacità di ascoltare (le esigenze dei politici) e di farsi ascoltare (dai politici) è la qualità cruciale. E poi ci sono ruoli diversi che possono essere ricoperti dai tecnici in politica: una cosa è essere commissario alla spending review, altra cosa è lavorare alla predisposizione e alla limatura di un provvedimento in una legge di stabilità. Un altro elemento è quello della temporaneità dell’impegno al servizio della politica: solo così un economista può tornare a fare l’economista dopo essersi dedicato alla politica.

Discutere del rapporto tra politica ed economia significa anche fermarsi a riflettere sulla funzione dell’economista. Secondo Milton Friedman (e Daveri con lui), le buone teorie e i buoni economisti sono quelli che arrivano a formulare previsioni azzeccate. Proprio questa è la richiesta che sembra provenire ai tecnici – agli economisti e a tutti gli scienziati sociali – da parte di una società sempre più smarrita di fronte alla complessità del mondo globale. D’altro canto, c’è chi ritiene – e Nannicini è uno di questi – che il compito degli economisti sia più modestamente quello di spiegare con strumenti scientifici ciò che è successo: nella speranza che questo consenta di commettere meno errori in futuro. Resta la questione aperta riguardo a se, ed eventualmente come, sia possibile formulare teorie che non si limitino a concludere che in futuro ci sarà una crisi, ma che diano indicazioni più precise sul verificarsi delle crisi stesse. In ogni caso, è fondamentale che gli economisti prendano coscienza dei pregiudizi politici che inevitabilmente ciascuno (inclusi gli scienziati sociali) ha, nel momento in cui tenta di spiegare la realtà sociale.

Se la centralità del formulare previsioni nel mestiere dell’economista resta quindi un punto di dibattito, non è possibile concludere facendo delle previsioni per il 2016. Piuttosto, si possono solo esprimere due «auspici». Il primo è che la ripresa – solo timidamente accennata nell’economia italiana nel 2015 – si consolidi. Il secondo – più politico – è che le riforme iniziate proseguano e si rafforzino. Una certa gradualità di attuazione – che preservi il consenso sociale sull’adozione delle riforme – non può infatti tradursi nel ritorno all’immobilismo dei decenni precedenti.

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