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25/10/2022 Fabrizio Perretti

Lavorare meno e guadagnare di più: un’utopia?

Il mondo del lavoro è attraversato, non solo in Italia, da trasformazioni e cambiamenti evidenti – lo sviluppo del lavoro da remoto, l’ondata di licenziamenti che ha interessato diverse professioni, la carenza di manodopera in alcuni settori – e da alcuni pressanti richieste, come l’introduzione di un salario minimo garantito e la riduzione dell’orario di lavoro a parità di stipendio. Sulla base di alcune sperimentazioni tale riduzione comporterebbe anche un aumento della produttività del lavoro. In teoria si potrebbero quindi ottenere due piccioni con una fava: aumentare i salari e ridurre l’orario di lavoro senza comprometterne la produttività. Più che comprendere se questo sia possibile, individuando l’eventuale punto di equilibrio economico tra le diverse componenti (salario-orario-produttività), è interessante riflettere sul cambiamento sociale delle nostre preferenze e sul significato e sull’importanza del lavoro nella vita delle persone.

Il mondo del lavoro occupa sempre una posizione centrale nel dibattito economico e politico e tale preminenza si è evidenziata anche nella recente campagna elettorale. Come recita l’art. 1 della Costituzione, la nostra Repubblica è fondata sul lavoro e non ci si può quindi sorprendere di tale centralità anche nel dibattito nazionale. In particolar modo dopo la pandemia, in cui il mondo del lavoro è stato attraversato – non solo in Italia – da trasformazioni e cambiamenti evidenti: lo sviluppo del lavoro da remoto, l’ondata di licenziamenti che ha interessato diverse professioni, la carenza di manodopera in alcuni settori. Rispetto al resto del mondo, in Italia si sono però aggiunte – non solo per motivi elettorali – alcune riflessioni e proposte in merito ai salari e all’orario di lavoro. Non si tratta di temi nuovi, ma alcuni dati recenti dell’OCSE[1] li hanno riportati alla ribalta. Mentre negli ultimi trent’anni i salari medi annui sono cresciuti in tutta Europa (Germania +33 per cento, Francia +31 per cento, Grecia +30 per cento, Portogallo +13 per cento, Spagna +6 per cento), l’Italia si è scoperta essere l’unico Paese in cui le retribuzioni sono diminuite, precisamente del 2,9 per cento.

Questo impressionante divario ha, da una parte, riportato l’attenzione sul salario minimo: mentre nell’UE ventuno Paesi hanno un salario minimo nazionale (compreso tra i 363 euro mensili della Bulgaria e i 2313 del Lussemburgo)[2], l’Italia, nonostante sia tra i primi cinque Paesi UE[3] con la maggior quota di lavoratori in condizioni di povertà (10 per cento), è infatti uno dei pochi Paesi sprovvisti di tale misura. Dall’altra, ha riaperto la tradizionale reazione di chi spiega che in Italia i salari non crescono perché scontano la più bassa produttività del lavoro. Queste spiegazioni rischiano però di giustificare l’attuale divario e di suggerire presso l’opinione pubblica un falso colpevole o responsabile. La bassa produttività del lavoro non coincide infatti con le sole prestazioni dei dipendenti (in cui cioè a parità di mezzi e di competenze, i lavoratori di alcuni Paesi lavorano di meno sia in termini di ore sia in termini di sforzo maggiore a parità di tempo), ma dipende anche da fattori esterni a essi, sia d’impresa (in termini di dotazioni di capitale e strumenti che queste mettono loro a disposizione e di come organizzano il lavoro), sia di contesto più ampio relativo all’efficienza del sistema Paese in cui le imprese operano.  

Molti di coloro che mettono in relazione il divario salariale con il divario della produttività del lavoro ne indicano correttamente la definizione e precisano che non siamo di fronte a maggiore pigrizia dei lavoratori italiani e che esistono anche gli altri fattori di cui sopra. Nonostante si cerchino quindi di evitare che eventuali fraintendimenti sul concetto di produttività del lavoro generino argomentazioni critiche nei confronti dei lavoratori italiani, di fatto però – mettendole in relazione diretta – ne giustificano la logica e la realtà esistente. Non si può infatti affermare contemporaneamente che la bassa produttività del lavoro dipenda dai lavoratori, dalle imprese e dal sistema Paese, e questo spiega (e quindi giustifica) i bassi salari dei lavoratori. Se una responsabilità è collettiva non può cioè scaricarsi solo alcuni soggetti, che tra l’altro lavorano altrettanto se non di più rispetto ai lavoratori di altri Paesi[4] (per esempio la Francia e la Germania), penalizzandoli. Non è quindi corretto mettere in relazione unica e diretta i bassi salari dei lavoratori con la bassa produttività del lavoro in Italia. Evitiamo quindi le posizioni di chi sa benissimo quanti «colpevoli» ci siano nel mondo e ne indica uno solo alla fine, perché così si usa fare nei romanzi gialli. O, peggio ancora, quando si precisa che, nonostante i lavoratori non debbano essere considerati i colpevoli, non è possibile evitare loro la prigione. Non esiste infatti danno maggiore di quello derivante dal condannare degli innocenti e contemporaneamente assolvere tutti gli altri anche se indiziati. Non dobbiamo quindi stupirci se da questa condizione derivino anche tensioni nelle relazioni industriali o di fuga, anche verso soluzioni populistiche in ambito politico.

Collegato a questo tema vi è quello della riduzione dell’orario di lavoro a parità di stipendio. Anche in questo caso non si tratta di una proposta nuova. La pandemia ci ha però spinto a richieste non solo di maggiore flessibilità nell’organizzazione del lavoro individuale (lavoro a distanza) ma ha anche modificato le nostre preferenze tra lavoro e tempo libero. Sulla base di alcune sperimentazioni[5] tale riduzione comporterebbe anche un aumento della produttività del lavoro. In teoria si potrebbero quindi ottenere due piccioni con una fava: aumentare i salari e ridurre l’orario di lavoro senza comprometterne la produttività. Più che comprendere se questo sia possibile, individuando l’eventuale punto di equilibrio economico tra le diverse componenti (salario-orario-produttività), è interessante riflettere sul cambiamento sociale delle nostre preferenze e sul significato e sull’importanza del lavoro nella vita delle persone. Dobbiamo cioè sforzarci come società a comprimere il più possibile il tempo dedicato al lavoro liberando maggiori risorse al tempo libero? O dobbiamo come spesso è stato in questi anni, anche retoricamente, trasformare il nostro lavoro in un’attività quasi ludica e così pervasiva da rendere i confini tra tempo libero e lavoro così mutevoli e fragili a tal punto da confonderli e renderli indistinti?

Per Adam Smith il lavoro era tutt’altro che un gioco, ma un’attività alla quale il lavoratore deve sempre sacrificare il suo riposo, la sua libertà e la sua felicità e in cui il salario è il corrispettivo di tali sacrifici[6]. Se il lavoro è sacrificio è giusto quindi che sia il più breve possibile e limitato nel tempo. Per Marx «Adam Smith ha in mente solo gli schiavi del capitale» e ne criticherà aspramente tale concezione universale del lavoro, limitandola solo allo sfruttamento capitalistico. Il lavoro non è solo una maledizione, «ma è certamente anche qualcos’altro… è attività positiva, creativa»[7]. È interessante come entrambe le prospettive trovino rappresentazione in due romanzi utopici dell’epoca di grande successo. In Guardando indietro (1888) di Edward Bellamy, il protagonista si risveglia nel 2000 in una società in cui si inizia a lavorare a 21 anni e si finisce a 45 per poi dedicarsi al tempo libero come i gentiluomini e le gentildonne della classe benestante della Boston del XIX secolo. Di una prospettiva opposta è invece Notizie da nessun luogo (1890) di William Morris, in cui si immagina una società bucolica in cui il lavoro è fonte di soddisfazione e di creatività.

Entrambi i romanzi sono stati scritti immaginando un futuro distante di cui noi, però, dovremmo ormai esserne i diretti testimoni. Possiamo constatare come entrambe le previsioni non si siano realizzate. Ma il valore dell’utopia non è nell’essere profetica ma nella sua capacità di rivendicare alcune aspirazioni. Aspirazioni che, nel caso del lavoro, sono – a distanza di tempo – ancora estremamente attuali. 

 

Il dossier di questo numero è dedicato al Real Estate, un settore che risente profondamente delle dinamiche legate alle trasformazioni del mondo del lavoro e a dove le persone decideranno di lavorare e di vivere. Il focus è invece dedicato al marketing e alle sue sfide per un tempo futuro che non è utopia, ma orizzonte concreto per tutte le imprese. Buona lettura! 



[1] OECD, Average Wages (Indicator), 2022.

[2] Eustostat, Monthly Minimum Wages (Bi-Annual Data), 2022.

[3] Eustostat, In-work at-risk-of-poverty rate by full-/part-time work, 2021.

[4] Eustostat, Average Number of Usual Weekly Hours of Work in Main Job, 2022.

[5] «Settimana corta a paga piena, l’Islanda brinda al successo», Il Sole 24 Ore, 6 luglio 2021, www.ilsole24ore.com; «Firms in Four-Day Week Trial Will Make it Permanent», BBC News, www.bbc.com.

[6] A. Smith, La ricchezza delle nazioni, Torino, Utet, 1996, p. 114.

[7] K. Marx, Grundrisse, Vol. I, Milano, PGreco, 2012, pp. 610-12.

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