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Normalizzazione monetaria: la lezione del Whatever It Takes
Il 26 luglio del 2012 Mario Draghi pronunciava quelle parole che sono entrate nel Vocabolario Treccani come l’espressione che «apre nella politica europea un altro orizzonte che non aveva precedenti». Per mettere in luce la rilevanza del «whatever it takes», si può raccontare l’evoluzione dell’annuncio monetario come un’opera in tre atti.
Atto primo: siamo alla fine degli anni Settanta, quando il problema dominante per i politici dei Paesi avanzati è quello di sconfiggere la Grande inflazione. L’analisi economica diede una ricetta per ottenere una politica monetaria efficace, che era basata su due ingredienti, tra loro amalgamati: occorrevano da banche centrali indipendenti dai governi in carica, la cui azione influenzasse le aspettative dei mercati finanziari. I politici applicarono volentieri quella ricetta, perché cascavano sempre in piedi: se l’inflazione fosse stata sconfitta, loro il merito di aver reso indipendenti le banche centrali; in caso contrario, i banchieri centrali sarebbero stati un perfetto capro espiatorio. I banchieri centrali, dal canto loro, avevano una doppia esigenza: convincere i mercati della loro autonomia, e rendere conto del proprio operato di fronte ai Parlamenti.
Per rispondere a questa duplice bisogno nacque l’annuncio monetario, nella sua prima versione del target inflazionistico (inflation targeting): la banca centrale si impegnava pubblicamente a tutelare il valore della moneta emessa, in modo credibile e trasparente. Emergevano così le tre parole chiave del nuovo spartito dei banchieri centrali: impegno, trasparenza, credibilità. L’annuncio inflazionistico doveva seguire l’approccio di Ulisse: l’eroe omerico si impegnò chiaramente a non ascoltare il canto delle sirene, e fu creduto, in quando legato all’albero maestro della sua nave.
Tali precetti si tradussero in riforme istituzionali che separarono le banche centrali dal potere esecutivo. Dal canto loro, le banche centrali adottarono l’annuncio inflazionistico: fin dalla sua nascita, la BCE esplicitò come sua bussola la variazione dei prezzi al consumo. In generale, l’indipendenza delle banche centrali, orientata dagli annunci inflazionistici, contribuì alla sconfitta della Grande inflazione, a cui seguì la Grande moderazione: una stabile crescita economica e dell’occupazione andava a braccetto con un’inflazione bassa e stabile.
Atto secondo: improvvisamente arriva la Grande crisi finanziaria del 2008. Le banche centrali implementano sistematicamente annunzi monetari non convenzionali (forward guidance): sono comunicazioni che, in aggiunta al’inflation targeting, riguardano gli strumenti della politica monetaria: i tassi di interesse, ma anche gli interventi di acquisto di titoli, pubblici e privati, sui mercati finanziari. Va ricordato che esempi di annunzi monetari forward guidance possono essere ritrovati nell’esperienza delle banche centrali anche prima del 2008; per esempio, pensando alla FED, negli anni 2003 e 2004 Alan Greenspan annunziò che avrebbe tenuto i tassi «bassi per un considerevole periodo». Ma la Grande crisi finanziaria è uno spartiacque da almeno due punti di vista.
Da un lato, all’assenza di problemi inflazionistici – almeno fino all’autunno 2021 – corrispondono invece in quegli anni, in tempi e modi diversi, rischi di recessione, ma anche di crisi finanziaria e bancaria, nonché di sostenibilità dei debiti sovrani. Aumenta così l’esigenza per le banche centrali di spiegare in modo convincente la strategia monetaria. Dall’altro lato, e di conseguenza, cresce la consapevolezza che l’annuncio monetario non deve avere come suo pubblico esclusivo i mercati finanziari, ma anche le famiglie e le imprese.
Rimangono però le tre parole chiave dello spartito. Quelle che vennero perfettamente declinate da Mario Draghi il 26 luglio del 2012. Il «whatever it takes» fu un annuncio vincolante e chiaro – «la BCE, nell’ambito del suo mandato, è pronta fare qualunque cosa per preservare l’euro» – e che risulterà credibile – «e credetemi, sarà sufficiente». La credibilità dell’annuncio è stata empiricamente dimostrata ex post, per esempio calcolando un l’effetto sui titoli pubblici italiani e spagnoli a due anni di circa duecento punti base, con positivi effetti a cascata su crescita economica e inflazione. Ma da che cosa dipese l’effetto credibilità? L’analisi economica sottolinea almeno due aspetti. Primo: l’intreccio virtuoso tra i due ingredienti prima ricordati: indipendenza della banca centrale ed effetto sulle aspettative. Secondo: l’importanza sia dell’indipendenza de jure di una banca centrale – e la BCE è una banca centrale la cui indipendenza è blindata nei trattati europei – sia da fattori che ne determinano la sua indipendenza de facto. Un fattore è quello politico: le altre politiche economiche, in particolare quelle fiscali, che sono controllate dai governi, devono essere coerenti con la politica monetaria. All’epoca del «whatever it takes» è unanime il riconoscimento del ruolo giocato in questo senso dal Consiglio Europeo del giugno precedente, su impulso degli esecutivi Monti e Rajoy. Un altro fattore è quello psicologico: i banchieri centrali, o almeno la maggioranza di essi, deve avere un effetto reputazionale atteso positivo dalle decisioni che prendono. Ed è indubbio che nel luglio 2012 il rischio elegantemente definito di ridefinizione della valuta – cioè la fine dell’euro – fosse verosimilmente rilevante per chi in quel momento prendeva le decisioni a Francoforte.
Atto terzo: dal 2012 a oggi gli annunci monetari forward guidance sono continuati, ma non sempre la loro traiettorie è stata coerente con le tre parole chiave. All’approccio di Ulisse si è affiancato l’approccio di Delfi: comunicazioni di politica monetaria che non sono vincolanti, e neanche trasparenti. Come per i vaticini formulati nel tempio di Apollo, le informazioni offerte sono interpretabili, quindi ambigue. L’approccio di Delfi è stato sistematicamente applicato dalla FED. Esempio emblematico è l’uso delle proiezioni sull’andamento futuro dei tassi (dot plot): previsioni individuali e anonime, che non impegnano nessuno. L’annuncio monetario alla Delfi diventa un catalizzatore di incertezza. L’atteggiamento della BCE appare invece più coerente con l’approccio di Ulisse. Nella sua revisione della strategia della politica monetaria, annunciata nel 2021, ha sottolineato l’importanza della comunicazione della politica monetaria, che deve essere «chiara e coerente», se si vuol coinvolgere pubblici sempre più ampi; se si aggiunge «vincolante», avremo le tre parole chiave.
Ma anche chi si sforza di applicare l’approccio di Ulisse deve fare sempre attenzione a rispettare le tre parole chiave, altrimenti gli effetti indesiderati sono in agguato. La presidentessa Lagarde lo ha già scoperto a sue spese, per esempio all’indomani della conferenza stampa del 12 marzo 2020. Che purtroppo si è ripetuta nel settembre 2022.
Una premessa: negli ultimi mesi, e per i mesi a venire, i riflettori saranno su Francoforte, con una domanda: quale sarà lo spartito dei tassi di interesse? Tutti si interrogano su falchi e colombe, ma il quesito essenziale è un altro: poiché l’efficacia della politica monetaria dipende dalla sua trasparenza, e per dirla con Shakespeare, prevarranno le allodole, che amano la luce, o gli usignoli, che preferiscono l’opacità?
Perché il tema della trasparenza è, oggi più che mai, cruciale? Partiamo dal presupposto che l’obiettivo comune di tutti i banchieri centrali europei sia quello di tutelare la stabilità monetaria minimizzando i rischi recessivi. Escludiamo cioè che ci siano membri del consiglio BCE che abbiano a cuore l’andamento specifico del proprio Paese, oppure che abbiano ragioni opportunistiche, o psicologiche, per perseguire altre finalità. In questo caso, tutti i banchieri centrali dovrebbero comportarsi da allodole.
La ragione è che l’efficacia della politica monetaria dipende dalla sua capacità di influire sulle aspettative di famiglie, imprese e mercati. Tale capacità è legata a sua volta agli annunci della banca centrale. La politica di annuncio è buona se provoca l’effetto Ulisse: gli operatori credono alla banca centrale, e fanno quello che i banchieri centrali auspicano. Oggi, per la BCE l’effetto Ulisse significa l’assenza di effetti destabilizzanti dell’attuale aumento dei prezzi al consumo sulle aspettative strutturali di inflazione, cioè nessuna spirale viziosa tra salari e prezzi. La politica di annuncio è cattiva quando prevale l’effetto Delfi: la banca centrale offre informazioni che provocano negli operatori reazioni diverse da quelle desiderabili, perché la politica monetaria proposta non è convincente. Esempio concreto: Draghi pronuncia nel luglio 2012 una frase, breve e generica, e provoca una reazione virtuosa: tutti credono che l’euro sia irreversibile. Powell pronuncia la scorsa settimana una frase della medesima lunghezza e genericità, ma con il risultato opposto: nessuno sembra credere che la FED sarà in grado di contenere l’inflazione senza creare rischi recessivi. L’annuncio di Draghi sta all’effetto Ulisse, come quello di Powell sta all’effetto Delfi.
L’importanza di avere annunci con effetto Ulisse è un assioma che vale sempre, ma è particolarmente vero in questa fase congiunturale, il cui il tratto dominante è l’incertezza. Le aspettative hanno bisogno di una politica monetaria che dia sicurezze, non che contribuisca ad aumentare l’instabilità. Quindi deve esserci massima trasparenza sulla cosidetta funzione di reazione della BCE. Che cosa significa? Che le banche centrali devono annunciare politiche dei tassi vincolanti, basate sulle loro previsioni macroeconomiche, ma sempre rivedibili, alla luce dei nuovi dati macroeconomici rilevanti. Concretamente, possiamo immaginare una BCE allodola, che annuncia un percorso almeno semestrale sui tassi e sulla liquidità, e al contempo definisce quali sono i dati macroeconomici che verranno presi in esame per modificare, se opportuno, tale percorso. All’opposto, possiamo avere una BCE usignolo, che non si vincola ad alcun percorso, e si trincea dietro la formula di prendere decisioni «dipendenti dai dati», senza neanche specificare quali, seguendo il cosiddetto approccio «olistico», che, per dirla in questo caso alla Monicelli, sembra solo una elegante «supercazzola». È quello che è accaduto a settembre.
Christine Lagarde sembrava brancolare nel buio, mentre comunicava le scelte della BCE: una decisione sul presente di innalzare i tassi, ampiamente scontata, condita da parole vuote sul futuro. Più che dare un messaggio credibile, l’obiettivo è sembrato quello di tirare a campare. Nessuna meraviglia che l’effetto d’impatto sui mercati sia stato di un pollice verso. C’è solo da augurarsi che le conseguenze negative si fermino qui.
Il punto di partenza è l’analisi che la stessa BCE ha offerto della situazione economica. I dati sull’inflazione sono stati definiti troppo alti, sia quelli attuali sia quelli previsti. In assenza di interventi, l’andamento dei prezzi è lontano dall’obiettivo europeo del 2 per cento. Le cause? Sempre seguendo l’analisi di Francoforte, in primo luogo i costi dell’energia, seguono i prezzi alimentari, e poi l’incertezza geopolitica. Qual è elemento comune? Sono shock che colpiscono l’offerta aggregata. Vanno contrastati – continua la BCE – perché altrimenti si innesca un effetto contagio, via il meccanismo delle aspettative. In questi casi – e qui traiamo le consequenze dell’analisi di Francoforte – l’unico strumento che può rendere efficace la politica monetaria è creare l’effetto Ulisse: mercati, famiglie e imprese devono convincersi che la banca centrale non solo sa quello che fa, ma si impegna anche a farlo. Occorrono cioè annunci vincolanti che definiscono la strategia di normalizzazione monetaria.
Concretamente: ci si aspetta che la BCE sappia quale sia il livello dei tassi di interesse coerente con l’obiettivo di far tornare l’andamento dei prezzi sulla rotta virtuosa. Significa sapere quale è il tasso di interesse che fa cambiare l’orientamento della politica monetaria da espansivo – come è ora – a restrittivo. Si è sempre chiamato tasso neutrale – è il tasso reale di lungo periodo più il tasso di inflazione ottimale – anche se adesso – forse per confondere ulteriormente le acque – sta diventando di moda usare il termine tasso «terminale». Ma che sia neutrale o terminale, la sostanza non cambia: la BCE deve sapere qual è. Certo, di mese in mese, nuove informazioni possono modificare le previsioni congiunturali, ma sicuramente non cambiano né le stime strutturali sul tasso neutrale, e neanche l’obiettivo inflazionistico. Quindi deve esistere un target sul tasso di interesse; dato il target, all’interno del consiglio BCE falchi e colombe potranno poi discutere su quanto graduale deve essere il raggiungimento del tasso di interesse target, cioè sul percorso. Inoltre, nuovi dati possono consentire di riaprire il dibattito sulla velocità della normalizzazione, che deve essere rapida per i falchi, più dolce per le colombe. Ma il target non cambia.
E invece no. Christine Lagarde ci ha detto candidamente che nessuno sa dove si vuole andare. Certo ci ha informato che i tassi si alzeranno; perché e come, però, nessuno lo sa. La formula magica è quella di dire che tutto dipende dai dati – senza specificare quali – e aggiungere che le scelte saranno prese di volte in volta. Sono due banalità. Come è una banalità dire che il mestiere del banchiere centrale è un’arte, dati i limiti dei modelli matematici.
Che tristezza, sembra essere tornati indietro di un secolo e mezzo, quando la scienza economica era agli albori, e i banchieri centrali erano burocrati dipendenti dai governi. Oggi sono autorità indipendenti, al servizio dei cittadini, con l’obbligo della trasparenza. Il banchiere centrale deve amare la luce, come le allodole nella metafora shakesperiana, a prescindere dal suo essere falco o colomba. Peraltro la BCE è stata allodola durante tutto il periodo in cui l’orientamento della politica monetaria è stato espansivo. E ora? È vero che è più facile ricevere applausi, dai politici come dai mercati, promettendo di stampar moneta. Il contrario no: assumersi impegni vincolanti in una fase restrittiva è più costoso, soprattutto se chi lo fa viene da una serie di previsioni sbagliate. È quella la differenza?
Per saperne di più:
- Acemoglu, D., Johnson, S., Querubin, P., Robinson, J.A., 2008, When Does Policy Reform Work? The Case of Central Bank Independence, NBER Working Paper Series, n.14033.
- Altavilla, C., Giannone, D., Lenza, M., 2014, The Financial and Macroeconomic Effects of OMT Announcements, ECB Working Paper Series, n. 1707.
- Bernanke, B.S., 2020, The New Tools of Monetary Policy, American Economic Review, 110(4), 943-983.
- Contessi, S., Li L., 2013, Forward Guidance 101A: A Roadmap of the U.S. Experience, Economic Synopsis, Federal Reserve Bank of St. Louis, n.25.
- Evans, C.L., 2012, Macroeconomic Effects of FOMC Forward Guidance, Brooking Institution, March 22.
- European Central Bank, 2021, Clear, Consistent and Engaging: ECB Monetary Policy Communication in a Changing World, Occasional Paper Series, n. 274.
- Favaretto, F., Masciandaro, D., 2016, Doves, Hawks and Pigeons: Behavioral Monetary Policy and Interest Rate Inertia, Journal of Financial Stability, 27, 50-58.
Donato Masciandaro è Professore di Economia Politica presso l’Università Bocconi, dove è titolare della Intesa Sanpaolo Chair in Economics of Financial Regulation. Dal 1989 scrive sul Sole 24 Ore. Dal 2005 per Economia&Management riprende e sviluppa i commenti e le analisi pubblicate sulle pagine del quotidiano economico-finanziario.