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L’ambivalente eredità di Gorbaciov in Russia
Nella Bibbia (Daniele, II, 31-35) il re Nabucodonosor vede in sogno una colossale statua con la testa d’oro, il petto e le braccia d’argento, il ventre e le cosce di bronzo, le gambe di ferro e i piedi fatti in parte di ferro e in parte d’argilla. Una pietra si stacca dal monte e va a sbattere contro i piedi della statua, frantumandoli e facendola crollare. Secondo il profeta si tratta una metafora del succedersi dei regni terreni, destinati prima o poi a crollare per l’inconsistenza dei valori su cui si fondano.
L’Unione Sovietica si dissolve il 26 dicembre 1991. All’inizio di quell’anno era il Paese più esteso del pianeta, con una superficie pari a un sesto delle terre emerse, con 290 milioni di abitanti di 100 nazionalità distinte e una potenza militare dominante anche grazie al suo enorme arsenale nucleare. In dodici mesi, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS) non esisteva più.
Come è stato possibile? Ci sono diversi fattori concomitanti. Quando nel 1985 Mikhail Gorbaciov viene nominato segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS), ha due principali obiettivi interni: rinvigorire l’anemica economia sovietica e snellire la burocrazia statale. Per perseguire questi obiettivi inaugura una stagione di riforme, i cui pilastri sono l’apertura (glasnost) del partito al dialogo e la ristrutturazione (perestrojka) dell’economia con l’introduzione di meccanismi di mercato. La prima ha lo scopo di dare nuova linfa al pensiero comunista, la seconda di dare slancio allo sviluppo del Paese. Tutto però avviene troppo in fretta e gli sfugge di mano. Più che la rinascita del pensiero comunista, la glasnost fa perdere allo Stato il controllo della conversazione pubblica, creando spazi inattesi per i movimenti di riforma democratica che avevano cominciato a prendere piede in tutto il blocco sovietico. La perestrojka si infrange contro strutture burocratiche resilienti, che si rivelano una straordinaria forza reazionaria a difesa di diritti acquisiti e abusi di potere.
La burocrazia non solo si mette di traverso, ma produce dati sull’andamento dell’economia che non rispecchiano la realtà. Ufficialmente l’economia sovietica è la seconda più grande del mondo dopo quella americana, ma l’esperienza di tutti i giorni dei cittadini racconta una storia diversa. Il razionamento dei beni di consumo è la regola.
Nella primavera del 1990 ero uno studente universitario in scambio presso la Stockholm School of Economics. La Svezia era neutrale ed era quindi più facile ottenere un visto per visitare da lì l’Unione Sovietica. L’associazione studentesca locale propone di approfittarne per organizzare un viaggio a Leningrado (oggi San Pietroburgo). Quello che troviamo è una città in cui solo le gloriose vestigia del passato imperiale sono ancora tenute con qualche cura. Sui mezzi pubblici non è raro trovare finestrini dai vetri rotti, spesso l’acqua che esce dai rubinetti è rossa di ruggine, i grandi magazzini sono vuoti. Notiamo che la gente è sempre in coda davanti a qualche negozio, che però cambia ogni giorno. L’attesa è lunga e fa ancora molto freddo. Ci avviciniamo e chiediamo per che cosa si facesse la coda. «Per il gelato», ci rispondono. Da ingenui studentelli occidentali ci guardiamo perplessi: quale passione per il gelato spinge queste persone a stare in coda per ore con quel freddo? Poi ci spiegano: non funziona come da noi, qui le cose non si comprano liberamente, ma vengono consegnate direttamente dallo Stato, con tempi e modi rigidamente pianificati. Ogni giorno si distribuisce qualcosa. Oggi tocca al gelato: anche se non ti va, lo puoi mettere da parte per scambiarlo in futuro con qualcos’altro di cui avrai bisogno.
Nei giorni successivi queste processioni laiche continuano sotto i nostri occhi. Arriva la volta del pesce. Si presentava in grossi blocchi di ghiaccio che facevano pensare ad altrettanti acquari congelati. Quando arrivava il tuo turno, l’addetto colpiva violentemente uno dei blocchi con una piccozza in modo da staccarne un pezzo. La dimensione del pezzo era grossomodo la stessa per tutti, ma quello che c’era dentro dipendeva dalla fortuna. Ti poteva toccare anche solo una coda. Peccato, questa volta è andata male, ma la potevi mettere da parte: anche per una coda domani qualcuno ti avrebbe dato qualcosa in cambio.
Si stima che allora l’economia sovietica del mercato nero equivalesse a oltre il 10 per cento del reddito nazionale. La perestrojka aveva fallito e la situazione economica internazionale non aveva aiutato. Le inefficienze burocratiche e le difficoltà incontrate nel far crescere la produttività dell’industria manifatturiera avevano reso il Paese dipendente dai ricavi dalla vendita all’estero di petrolio e gas, di cui Mosca era già allora uno dei principali esportatori mondiali. Il crollo del prezzo del petrolio da 120 dollari al barile nel 1980 a soli 24 dollari nel 1986 aveva tolto un puntello fondamentale al traballante edifico dell’economia sovietica. Gorbaciov si trovava a dover gestire un’economia stagnante e impoverita. Nonostante questo, c’erano spese a cui non si voleva rinunciare: le spese militari.
Nella primavera del 1983 l’allora presidente americano Ronald Reagan cambia approccio rispetto alla gestione della minaccia nucleare. Dagli anni Sessanta tale gestione era stata guidata dalla dottrina della «distruzione reciprocamente assicurata» (mutual assured destruction, il cui acronimo è MAD, cioè «matta» in inglese). Questa dottrina si basava sulla teoria della deterrenza razionale, ispirata dalle idee del matematico e premio Nobel americano John Nash (quello del film A beautiful mind): la minaccia di usare le armi nucleari contro il nemico rende irragionevole per il nemico usare quelle stesse armi, perché, una volta armati fino ai denti, nessuno dei contendenti ha alcun incentivo a cominciare per primo un conflitto nucleare o a disarmarsi.
Reagan non è convinto che questo equilibrio armato fosse la migliore soluzione per la sicurezza nazionale americana e si convince che un approccio alternativo fosse percorribile, facendo leva sulle capacità di innovazione tecnologica del proprio Paese per rendere obsolete le armi nucleari. Nel 1984 nasce l’Iniziativa di difesa strategica (Strategic Defense Initiative - SDI), soprannominata dai critici il «programma guerre stellari», il cui scopo era la creazione di un sistema di difesa missilistica inteso a proteggere gli Stati Uniti e i loro alleati da eventuali attacchi nucleari intercontinentali. La reazione dell’URSS è un’escalation della spesa militare, già appesantita dalla guerra in Afghanistan che si trascinava dal 1979 e che si chiuderà con la ritirata dell’Armata Rossa nel 1989. Si stima che, per entrambi i motivi, in quegli anni la voce di spesa militare assorbisse tra il 10 e il 20 per cento del reddito nazionale.
Più delle guerre stellari di Reagan è proprio il ritiro da Kabul a rappresentare un punto di rottura di grande importanza simbolica. In virtù della glasnost, gli ultimi anni della guerra afghana si svolgono sotto i riflettori, suscitando reazioni discordanti nelle quindici Repubbliche Socialiste Sovietiche. Quelle baltiche vedono nell’invasione un’ulteriore manifestazione dell’imperialismo con cui i russi trattano gli altri membri dell’URSS. Le repubbliche asiatiche si rendono conto di essere più affini culturalmente e storicamente a Kabul che a Mosca. Manifestazioni contro la guerra scoppiano in Ucraina. Insomma, il sentimento diffuso è che quella in Afghanistan fosse soltanto una «guerra di Mosca». Poco o nulla aveva a che fare con gli interessi delle altre Repubbliche, costrette a mandare i propri soldati a morire inutilmente. In Russia la ritirata viene vissuta come un’umiliazione militare che andava ad aggiungersi a quella economica.
Durante quel viaggio fatto tanti anni fa a Leningrado, ci rendiamo conto che Gorbaciov non è per nulla amato. Sotto la sua guida si è infranto un sogno per il quale la popolazione aveva sopportato sacrifici enormi, un sogno di affermazione planetaria dell’eccezionalità del grande spirito russo. Sembra esserci ancora molto del dolore rancoroso per questo sogno infranto non solo nell’aggressività della retorica di Mosca, ma anche nella centralità della spesa militare nella sua politica economica.
* Questo articolo è un estratto del libro G. Ottaviano, Riglobalizzazione, Milano, Egea, 2022.
Gianmarco Ottaviano è Professore di Economia Politica presso l’Università Bocconi, dove è titolare della Achille and Giulia Boroli Chair in European Studies. Scrive sul Sole 24 Ore e su lavoce.info. Per Economia&Management riprende e sviluppa i commenti e le analisi pubblicate sulle due testate.