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Perché un’aranciata non è una spremuta
La storia di Birra del Borgo
Estratto da "Il futuro nelle mani. Viaggio nell'Italia dei giovani artigiani" di Marina Puricelli
Due giorni dopo incontro Leonardo Di Vincenzo (classe 1976) nel birrificio di Spedino, al suo rientro da uno dei moltissimi eventi «a base di birra» ai quali prende parte per presentare i suoi prodotti ma, soprattutto, per diffondere la cultura della birra artigianale italiana e non solo. Dalla rete di conoscenze che emergono dopo pochi minuti di confronto – Carlin Petrini di Slow Food, Oscar Farinetti di Eataly, Teo Musso, fondatore del birrificio artigianale Baladin – mi rendo conto di essere di fronte a uno dei protagonisti del fenomeno di valorizzazione dell’universo enogastronomico italiano, sebbene le movenze da primo attore non facciano per nulla parte dello stile di questo giovane imprenditore.
Leonardo mi piace da subito proprio perché, come dovremmo fare tutti, lascia che siano i risultati del suo lavoro a parlare di lui. In più gli devo tributare il merito di avermi fatto fare una piccola grande scoperta, ragione per cui, è bene ammetterlo, sarò terribilmente di parte nel raccontare la sua storia. All'inizio dell’intervista, data anche l’afa agostana, al posto del solito caffè, mi offre una birra. Sono costretta a confessargli che la bevo assai raramente e, quando mi capita, la miscelo con la Lemonsoda. Mentre parlo mi rendo conto di proferire la peggiore delle eresie per un mastro birraio. Mi guarda, tra il divertito e lo sconvolto, e poi si mette a pensare, capisco che sta immaginando che cosa farmi provare del suo repertorio. Gli ripeto, scusandomi, che di norma non bevo birra, che proprio non mi va, che non deve disturbarsi. Sorride ancora e chiama un suo collaboratore chiedendogli di portarmi un bicchiere di Duchessa. Chiaro a quel punto che non posso rifiutare. Bevo quindi, quasi per forza, un primo sorso e scopro con sorpresa che mi piace. Penso sia per via della sete di quel torrido pomeriggio. Provo un secondo sorso e va ancora meglio. Sperimento un gusto e una morbidezza completamente nuove per il mio palato. Capisco in quel momento la mia ignoranza. Comprendo di avere sempre rifiutato prodotti industriali senza mai aver provato gli equivalenti artigianali come se un’aranciata possa essere uguale a una spremuta di arance appena colte.
C’è un mondo da scoprire relativo a questa bevanda ed è un mondo costruito in Italia negli ultimi quindici anni da alcuni personaggi: Leonardo è sicuramente tra loro. Il giovane birraio è di Roma e proviene da una famiglia di professionisti. Liceo classico e laurea in Biologia alla Sapienza. Già nella scelta della facoltà universitaria dà un primo, leggero, schiaffetto al papà che, essendo commissario della Banca d’Italia, non disdegnava per lui un rassicurante futuro da economista. Ma il vero colpo verrà, qualche anno più tardi, come risultato di una passione nata da un incontro. Nel 1999, Leonardo compra da un amico un kit per produrre birra in casa. Lo sfizio si fa via via più impegnativo, inizia a frequentare un gruppo di amatori, si sposta da Roma in Piemonte e in Lombardia per confrontarsi con altri «adepti». Si crea una combriccola di «fissati » che passano il loro tempo libero a parlare di birre; insieme degustano quelle belghe, inglesi, americane; provano anche a produrle, con il gusto e la creatività italiana per dare valore aggiunto a un prodotto fino ad allora importato o realizzato in prevalenza secondo standard industriali. Nel frattempo, dopo la laurea, Leonardo prosegue, come dottorando di ricerca, presso la facoltà di Biologia e, proprio quando sembra ben avviato alla carriera accademica con un posto da ricer-catore che si profila all’orizzonte, con i suoi risparmi, nel dicembre del 2004, decide di aprire il birrificio. Per suo padre e sua sorella maggiore è una vera follia, un non senso e anche un rischio: trasformare un divertimento da ragazzi in lavoro, lasciare un ambiente prestigioso come quello accademico e avviare un’impresa. Per queste divergenze di vedute i rapporti tra loro si interrompono.
Leonardo prosegue per la sua strada, aprendo un piccolo birrificio a Borgorose, paese d’origine dei nonni materni, aiutato e supportato solo dalla mamma e dallo zio. Lì, in quel paesino, dove all’inizio lo prendono per un po’ per matto, decide di stabilirsi. Le difficoltà iniziali sono enormi. La birra artigianale non è né conosciuta né tantomeno apprezzata: gli intermediari commerciali ma anche le enoteche e i locali di riferimento non sono preparati ad accoglierla e a presentarla. Manca la cultura di un prodotto che non è di tradizione italiana, cultura che ormai si è ampiamente diffusa nel nostro Paese in quasi tutti gli ambiti enogastronomici: dal vino ai formaggi, dai salumi alla pasta e al pane. Leonardo, in scia a Teo Musso e altri mastri birrai, prosegue in un’opera di alfabetizzazione dei potenziali clienti e consumatori. Iniziano i primi timidi successi: le etichette di Birra del Borgo vincono alcuni concorsi, ma si è ancora all'interno della stretta cerchia degli addetti ai lavori.
La vera svolta avviene nel 2007. Un anno particolarmente significativo che vede, innanzitutto, l’ingresso in azienda del padre Antonino, nel ruolo di responsabile amministrativo e finanziario. Proprio lui, che non aveva creduto nel progetto del figlio, cambia radicalmente atteggiamento, fino al punto di mettere le sue utilissime competenze a supporto dell’iniziativa imprenditoriale.
Il secondo avvenimento è l’apertura di un locale a Trastevere dal nome evocativo – Bir&Fud – con l’intento di creare un luogo dove si fa cultura birraria e gastronomica, proponendo, con la massima cura e ricerca delle materie prime, due prodotti ultra popolari come la pizza e la birra, troppo spesso dequalificati. Bir&Fud riscuote nel giro di un paio d’anni risultati sorprendenti, diventando un locale che fa tendenza a partire dal caratteristico quartiere di Trastevere fin oltre confine, perché da Roma, è risaputo, passa tutto il mondo. Prova ne è che la rivista di Ryanair lo cita tra le tavole imperdibili della capitale. La birra artigianale e le varietà proposte da Leonardo iniziano afarsi conoscere presso un pubblico molto più ampio: il successo, dopo tanti sforzi, si propaga a macchia d’olio. Le enoteche e i ristoranti diventano sensibili al fenomeno e iniziano a chiedere Birra del Borgo.
Sull'onda dei risultati estremamente positivi, nel 2009, con il collega Teo Musso Leonardo apre un locale: l’Open Baladin di Cinzano, cui poi seguiranno quello di Roma e di Torino. Due etichette – Baladin e Birra del Borgo – che potrebbero essere naturali antagoniste si mettono insieme, cooperano, per competere contro i colossi del settore.
La conoscenza delle birre artigianali si diffonde e, di conseguenza, i consumi rispetto ai marchi industriali.
Con questo assetto, le sue competenze specifiche possono essere messe al servizio di un’altra piccola avventura: l’apertura di un birrificio in Australia che lo porterà a fermarsi a Sidney per sei mesi per garantire l’avviamento del nuovo impianto e la diffusione del nuovo marchio Nomad, non volendo riproporre il brand Birra del Borgo all'altro capo del mondo. Le collaborazioni proseguono su scala internazionale: l’ultima è quella con il mastro birraio americano Sam Calagione, per continuare a sperimentare e proseguire nella missione di diffusione della birra artigianale nel mondo.