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Con chi confrontarsi? Una riflessione sul benchmarking
Il benchmarking rappresenta uno degli strumenti di management più diffusi e utilizzati dalle imprese[1]. Come purtroppo accade per molti strumenti e modelli di strategia, dove a distanza di tempo dalla loro introduzione se ne perde consapevolezza della complessità con il rischio di utilizzarne versioni progressivamente semplificate e diverse dall’originale, lo stesso si è verificato con l’analisi di benchmarking. Introdotto alla fine degli anni Settanta da Xerox Corporation con lo scopo di recuperare la perdita di competitività nei confronti dei concorrenti giapponesi, il benchmarking si fonda sul confronto tra i processi aziendali interni con quelli delle migliori imprese/organizzazioni in determinati settori e sulla successiva adozione delle migliori pratiche esterne così individuate[2]. Si tratta di un processo estremamente complesso e articolato che prevede alcuni snodi decisionali importanti: a) individuare il gruppo di confronto esterno; b) raccogliere le informazioni sulle pratiche di tale gruppo; c) scegliere quali tra queste pratiche sia opportuno/fattibile adottare al proprio interno e in che modo. Ciascuno di questi passaggi è particolarmente delicato e richiede specifiche attenzioni, non solo perché le scelte operate in ciascuna fase condizionano le fasi successive, ma anche perché si basano su assunzioni spesso non esplicitate che, limitando i risultati dell’analisi complessiva, è quindi necessario riconoscere.
Il primo importante assunto è che le pratiche migliori sono presenti nelle migliori imprese. Per individuare tali pratiche è quindi necessario partire dai migliori soggetti e poi analizzarle. Il gruppo di confronto esterno, sia esso limitato ai concorrenti o esteso a imprese appartenenti ad altri settori, si fonda cioè sul ranking rispetto a una specifica misura di performance complessiva (per esempio la quota di mercato o la redditività). All’interno di tale ranking si individuano quindi i soggetti in cima alla classifica e se ne analizzano successivamente alcune pratiche specifiche, confrontandole con quelle interne. Se nel gruppo di confronto si decide di includere solo i concorrenti, oltre alla difficoltà di reperire informazioni dettagliate sulle loro pratiche, il risultato si limita spesso alla riduzione di un divario o al raggiungimento di una situazione di parità operativa ma non al conseguimento di un vantaggio strategico. Se nel gruppo di confronto si decide di includere imprese appartenenti ad altri settori, lo scambio di informazioni può essere agevolato dalla non sussistenza di condizioni di concorrenza reciproca. Si corre così il rischio di confrontarsi con situazioni talmente distanti da renderne difficile l’adozione o il conseguimento degli stessi risultati.
Queste due situazioni, pur essendo opposte, non dovrebbero però essere considerate come equidistanti. Se l’obiettivo del benchmarking è infatti quello di conseguire un vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti, il gruppo di confronto dovrebbe includere soggetti appartenenti ad altri settori così da adottare pratiche innovative non ancora sfruttate nel settore di appartenenza. Nelle analisi di benchmarking questo insieme viene però spesso individuato nel cosiddetto «gruppo dei pari», limitandosi non solo ai concorrenti, ma selezionando quei concorrenti che sono più simili o vicini all’impresa di riferimento, anche in termini di performance. L’analisi si riduce quindi a un’unica esigenza (sapere che cosa fanno i nostri concorrenti) e a una pericolosa e semplicistica conclusione (se la maggior parte dei nostri simili adottano alcune pratiche allora dobbiamo adottarle anche noi). In questo processo non solo si perde la finalità originaria dell’analisi di benchmarking, ma anche la logica dei risultati che se ne traggono. Scegliere di adottare una pratica solo perché diffusa non significa infatti adottare la pratica migliore.
L’altro snodo critico riguarda, una volta individuata, l’adozione interna di tale pratica. Spesso non si tratta di una semplice operazione di «copia e incolla» di elementi indipendenti, ma di veri e propri «trapianti» organizzativi che richiedono tempo e risorse e che possono – se non eseguiti attentamente – generare delle vere e proprie crisi di rigetto. Un recente documentario sull’acquisizione di uno stabilimento americano da parte di una multinazionale cinese ne è un esempio indicativo. In questo caso il tentativo di trasferire negli Stati Uniti le stesse pratiche adottate negli stabilimenti cinesi dell’impresa si è rivelato un fallimento[3]. L’errore consiste nel considerare una pratica indipendente dagli altri elementi – sia d’impresa sia di contesto – in cui è inserita, pensando di poterla innestare in un nuovo soggetto e ottenere – anche se priva degli altri elementi da cui è stata estratta – le stesse prestazioni. Nell’analisi di benchmarking, invece di una visione organica prevale spesso una visione meccanicistica che è tanto più pericolosa nel momento in cui nello stesso gruppo di confronto si includono imprese appartenenti a contesti nazionali e culturali differenti. Ma proprio perché è predominante un’impostazione fondata sui concorrenti e la concorrenza è spesso a livello globale, tale fenomeno e il rischio conseguente sono frequenti.
L’analisi di benchmarking richiede quindi molta attenzione nel suo svolgimento ma, nello stesso tempo, bisogna anche evitare di darvi eccessiva attenzione nel suo impiego. Il rischio è infatti quello di dare troppa importanza a che cosa fanno gli altri e a considerare il contesto esterno l’unica fonte, o quella più importante, a cui attingere. L’analisi di benchmarking risponde all’obiettivo dell’impresa di migliorarsi per rispondere in modo più efficace ed efficiente al soddisfacimento della domanda dei propri consumatori e clienti e, in generale, dei portatori di interesse. Vi è una visione consolidata in economia che considera la concorrenza come il motore primario, se non unico, di tale progresso. Secondo tale impostazione, è infatti la competizione con soggetti esterni che crea meccanismi di innovazione e imitazione reciproci. Spesso tale visione dimentica però che la spinta all’innovazione e al miglioramento può partire dall’interno, dalla semplice volontà di cercare di fare sempre meglio senza che vi sia una pressione esterna. Prima che una sfida con gli altri si tratta cioè di una sfida con noi stessi, che esiste o dovrebbe esistere anche in assenza di competizione. Il pericolo di utilizzare esclusivamente o come strumento primario l’analisi di benchmarking è quello di atrofizzare le capacità di risposta interne alle imprese e generare un riflesso automatico per cui bisogna prima e comunque guardare fuori dall’impresa. Con il tempo si allena quindi l’impresa più a imitare che a pensare autonomamente. Questo non significa che le imprese debbano abbandonare l’analisi di benchmarking e non significa nemmeno che debbano rinunciare a imparare dalle esperienze di altre imprese. È importante avere esempi esterni cui fare riferimento. Spesso però gli esempi non si cercano ma si trovano. Sono cioè il risultato di un’attività di attenzione all’esterno ad ampio raggio e non focalizzata. Il rischio di cercarli sistematicamente e ossessivamente è infatti quello di perdere sé stessi.
Il dossier di questo numero è dedicato al management della sanità. Anche in questo caso si tratta di un ambito nel quale il confronto con gli altri Paesi e le analisi di benchmarking sono state frequenti, soprattutto in questi due anni di pandemia. Quotidianamente ci siamo infatti trovati a confrontare la nostra situazione e le prestazioni del nostro sistema sanitario con quella delle altre nazioni. Il Covid-19 ci ha mostrato non solo l’importanza del sistema sanitario ma anche che le sue prestazioni – e nel caso della pandemia questo ha significato la differenza tra la vita e la morte dei pazienti – dipendono non solo dalla qualità e dall’impegno dei medici, degli infermieri e di tutto il personale sanitario, ma dalla loro organizzazione e da una corretta gestione delle risorse. In alcuni casi e in alcuni momenti il sistema ha dato ottima prova di sé, in altri sono stati evidenti i gravi limiti e le carenze. Per ri-progettarne il futuro dobbiamo partire da entrambe le componenti e farne tesoro. Buona lettura!
[1] «Management Tools & Trends», Bain & Company, 5 aprile 2018.
[2] Sull’analisi di benchmarking si vedano: R.C. Camp, Benchmarking: The Search for Industry Best Practices That Lead to Superior Performance, New York, Productivity Press, 1989; T. Stapenhurst, The Benchmarking Book, Londra, Routledge, 2009.
[3] Il documentario in questione è «American Factory», 2019. Sul tema dei «trapianti» organizzativi si veda: J. Fruin, P.S. Adler, Remade in America: Transplanting and Transforming Japanese Management Systems, Oxford, Oxford University Press, 1999.