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28/02/2022 Cecilia Attanasio Ghezzi

Il nuovo nazionalismo dei consumatori cinesi

Sempre più spesso, i consumatori cinesi stanno seguendo il cammino disegnato dalla politica nazionalista del proprio Paese e si rivolgono ai brand cinesi per soddisfare le proprie voglie. Per questo motivo, marchi e influencer cercano di inserire le loro campagne pubblicitarie nel filone delle campagne governative che, non è un segreto, predilige sempre più il made in China.

È finita l’epoca d’oro del mercato in continua espansione al di là della muraglia. Quello che per i più importanti marchi occidentali è stato un vero traino – almeno negli ultimi dieci anni – si sta chiudendo. I consumatori cinesi – giovani, attratti dalle novità e con una sempre maggiore capacità di spesa[1] – stanno seguendo il cammino disegnato dalla politica e si rivolgono sempre più ai marchi cinesi per soddisfare le proprie voglie[2]

Il patriottismo, la doppia circolazione e i recenti scandali internazionali – come quello del cotone dello Xinjiang prodotto nei campi di detenzione che ha costretto marchi occidentali e cinesi a prendere posizione rispetto ai loro mercati di riferimento – hanno completamente trasformato il panorama. La parabola del più importante influencer cinese[3] – nato dallo scouting di l’Oreal e finito a promuovere solo brand cinesi – le produzioni agricole delle aree rurale e le campagne governative come quella contro la povertà o per i prodotti tipici di Wuhan al fine di risollevare l’economia della città devastata dall’epidemia, la dicono lunga sullo stato dell’arte. E non è un caso.

L’attitudine al consumo e tutto ciò che afferisce la gratificazione personale è un tratto distintivo della popolazione cinese. Di fatto costituisce la possibilità di godere appieno di libertà e cittadinanza attiva, secondo una logica che in molti definiscono «individualismo economico»[4]. I consigli per gli acquisti, la scelta dei marchi e degli oggetti con cui vestirsi e mostrarsi in pubblico, sono diventati così elementi fondamentali per la definizione della propria identità per centinaia di milioni di giovani consumatori e, di conseguenza, per i marchi che vogliono attirarli a sé. E questo non accade solo nel caso dei marchi stranieri.

Prendiamo il caso di Erke, un brand secondario che da oltre vent’anni opera nel campo dell’abbigliamento sportivo cinese. Il 21 luglio scorso, a seguito delle devastazioni provocate dalle alluvioni nella regione dello Hennan, ha annunciato dal suo account social di Weibo che avrebbe donato milioni di yuan alle aree colpite dal disastro[5], proprio come i ben più noti (e ricchi) marchi. Nel giro di una notte, i partecipanti alle sue vendite online sono passati da qualche migliaio a 19 milioni. E in generale la popolazione cinese ha apprezzato a tal punto il gesto che appena tre giorni dopo Erke ha dovuto comunicare come non avesse i magazzini abbastanza pieni per soddisfare tutte le richieste d’acquisto ricevute.

Di contro Li-Ning, uno dei marchi più conosciuti dello stesso settore, è stato severamente criticato e boicottato perché, avendo offerto una cifra simile ma godendo di una notorietà e un fatturato neanche minimamente paragonabile a Erke[6], aveva donato troppo poco e troppo lentamente. «Come ci ha insegnato il cinema di Hollywood, il patriottismo vende», ha commentato il professore di cultura digitale dell’università della Pennsylvania Yang Guobing. Ma qui non si tratta solo di patriottismo.

Certo, una sorta di orgoglio nazionalista, da sempre coltivato dalla leadership comunista, è esploso con la gestione di successo della pandemia, ma di contro le misure per mantenere in vita la politica zero-Covid hanno chiuso sempre di più la Cina. Dal febbraio 2020 praticamente i voli internazionali sono fermi e le autorità non rilasciano più passaporti. Nel frattempo, l’ambiente social si è fatto sempre più tossico e spesso gli utenti sanno da sé che il nazionalismo è l’unico argomento che può incendiare gli animi senza il pericolo di incorrere in censure governative.

Chi ha usato Weibo o WeChat una decina di anni fa era abituato a trovarci persone che riflettevano politicamente sugli eventi e che si divertivano ad aggirare la censura, ora quelle persone non esprimono più le loro opinioni pubblicamente (quando non si siano cancellate o non siano state bannate per aver postato contenuti sensibili) e sulle piattaforme social è rimasto solo chi ha interesse a raggiungere larghe platee per vendere i propri prodotti. Per questo non è raro accorgersi che chi promuove contenuti nazionalistici su, per esempio, il Mar meridionale, è lo stesso utente che proverà poi a vendere lavatrici o prodotti di bellezza. Ed è per questo che marchi e influencer cercano di inserire le loro campagne pubblicitarie nel filone delle campagne governative che, non è un segreto, predilige sempre più il made in China. È un circolo vizioso che la Cina non sembra aver interesse a interrompere. Almeno per il momento.

 

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