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Le sanzioni economiche contro la Russia: la continuazione della politica con altri mezzi
«La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi». Così scriveva due secoli fa il generale prussiano Carl Von Clausewitz nel suo libro Della guerra, un trattato di strategia militare molto letto nel secolo scorso anche in ambienti marxisti e leninisti. Al punto da far parte dei programmi di studio delle accademie militari sovietiche negli anni in cui Vladimir Putin cominciava il suo addestramento presso la scuola del KGB a Leningrado (l’odiena San Pietroburgo).
In quegli anni, l’attuale presidente russo era già diventato membro del Partito comunista dell’Unione Sovietica e si era appena laureato in legge, con una tesi sul principio della nazione più favorita in tema di commercio internazionale. Clausole ispirate a questo principio, se inserite nei trattati internazionali, impegnano gli Stati contraenti a concedersi reciprocamente il trattamento più favorevole già concesso ad altri Stati. Si tratta di un principio cardine del sistema di scambi internazionali che ruota intorno all’Organizzazione mondiale del commercio, a cui da un decennio aderisce la Russia.
Anche la sospensione unilaterale de facto del principio della nazione più favorita può diventare una continuazione della politica con altri mezzi, a metà strada tra diplomazia e guerra. È uno strumento recentemente scelto dalle amministrazioni americane in relazione alla Cina; è lo strumento che gli Stati Uniti e, con vari distinguo, i loro alleati stanno privilegiando in queste ore concitate nei confronti della Russia in caso di invasione dell’Ucraina. Nel caso della Cina, Washington preferisce i dazi, cioè tasse sulle importazioni di beni e servizi cinesi; nel caso della Russia minaccia sanzioni senza precedenti, cioè divieti e restrizioni al libero movimento internazionale di beni, servizi, capitali e persone, volti a punire, vincolare e, più in generale, influenzare il comportamento del governo, delle imprese, della banche e delle élite di Mosca. Nel corso della storia le sanzioni sono state utilizzate ripetutamente in sostituzione o a sostegno di azioni militari, ma il loro uso è andato intensificandosi soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale sotto la spinta degli Stati Uniti, dell’Unione Europea e delle Nazioni Unite.
La questione che si pone e si impone drammaticamente in queste ore è se le sanzioni possano funzionare, cioè se possano riuscre davvero a raggiungere l’obiettivo di fermare la politica prima che diventi guerra, incanalandola verso un esito negoziale. Sulla base dell’esperienza pregressa, i critici delle sanzioni internazionali ritengono che siano spesso mal concepite e, nella maggior parte dei casi, non riescano a raggiungere i loro obiettivi. Al contrario, i sostenitori affermano che le sanzioni sono efficaci e rappresentano un’efficace risposta di politica estera alle crisi in cui l’azione militare non è un’opzione praticabile o credibile. In questa ottica, offrirebbero un’alternativa visibile e potenzialmente meno costosa all’intervento militare e al non fare nulla.
Le sanzioni economiche imposte negli ultimi anni alla Corea del Nord, alla Russia (dopo i fatti di Crimea), al Venezuela e al Myanmar, illustrano la diversità degli obiettivi e, in attesa degli esiti finali, sembrano fornire supporto alle argomentazioni avanzate sia dai critici sia dai sostenitori. Un ulteriore esempio in tal senso è il caso dell’Iran. Gli Stati Uniti e l’UE hanno usato le sanzioni come un mezzo per cercare di indurre l’Iran a negoziare sul suo programma nucleare rallentandone lo sviluppo e a modificare le proprie politiche interne in materia di diritti umani. Le prime sanzioni economiche contro l’Iran sono state introdotte nel 2006 per essere estese e inasprite negli anni successivi sia ampliando la gamma di prodotti coinvolti che aggiungendo restrizioni finanziarie e divieti di viaggio per singoli individui. Se queste sanzioni abbiano veramente funzionato o no è oggetto di dibattito, essendo probabilmente troppo presto per poterlo dire.
Sebbene questa incertezza negli esiti valga per molte altre situazioni critiche in corso, recentemente cominciamo a saperne di più, anche grazie alla creazione del Global Sanctions Data Base, una banca dati che copre 729 episodi sanzionatori a livello globale dal 1950 al 2016. Rispetto agli obiettivi dichiarati pubblicamente da chi ha imposto le sanzioni, emerge un quadro interessante. Fino alla metà degli anni Sessanta, quasi il 50 per cento di tutte le sanzioni sembra non aver funzionato, inmplicando un tasso di successo delle sanzioni pari a quello di testa o croce nel lancio di una monetina. Dalla metà degli anni Sessanta, il tasso di successo è aumentato costantemente raggiungendo un apice dell’80 per cento nel 1995, se si considera successo totale, parziale e negoziale.
Dopo il 1995 il tasso di successo è però tornato a calare. Questo è avvenuto non tanto perché sono aumentati gli insuccessi, ma perchè molte situazioni critiche sono entrate in stallo proprio a seguito di sanzioni reali o minacciate. Uno stallo che, quale un coma farmacologico, non è ancora un successo, ma permette comunque di guadagnare tempo prezioso per evitare che la guerra continui la politica con altri mezzi.
Gianmarco Ottaviano è Professore di Economia Politica presso l’Università Bocconi, dove è titolare della Achille and Giulia Boroli Chair in European Studies. Scrive sul Sole 24 Ore e su lavoce.info. Per Economia&Management riprende e sviluppa i commenti e le analisi pubblicate sulle due testate.