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Tassi di interesse, inflazione e banche centrali: le parole pesano
È dalla scorsa primavera che i riflettori sono accesi sulla dinamica dei tassi di interesse, e sull’effetto che su di essa può avere il rischio inflazione. Tutto è iniziato a maggio, quando i dati relativi alla crescita dei prezzi al consumo negli Stati Uniti hanno segnato un aumento che non si registrava dal 2008. Era il segnale di un’economia con una esuberante domanda aggregata, che si riflette in una crescita economica sia reale sia nominale. È dunque normale che siano saliti sia i tassi di interesse sui titoli di stato americani sia il tasso di cambio del dollaro. Da quel momento, il quesito cruciale è stato quello di capire quanto la crescita dei prezzi sia o no un fenomeno temporaneo. Sul questo punto, i membri del consiglio direttivo della FED, a partire dal presidente Powell, hanno ripetuto una sorta di mantra: l’inflazione salirà, ma sarà una crescita temporanea. Di conseguenza, l’orientamento ultra-espansivo della politica monetaria non cambierà, almeno finché la ripresa post Covid-19 non sarà un fenomeno robusto e consolidato, anche in termini di rischi di reversibilità.
È un mantra che nasce da un pilastro della strategia di politica monetaria, in particolare dal 2008 e soprattutto nei Paesi avanzati: il rapporto tra inflazione, aspettative dell’economia e annunci della banca centrale. Il meccanismo di base è semplice: nella formazione dei prezzi – sia quelli dei beni e dei servizi sia quello del lavoro, cioè il salario – il motore principale è rappresentato dalle aspettative. Se le aspettative sono stabili, ogni altro shock che colpisce i prezzi è temporaneo, quindi non è preoccupante. L’andamento dell’inflazione finisce per assomigliare a quello di uno yo-yo: si può allontare dal suo trend, verso l’alto o verso il basso, ma sul suo trend tende a tornare.
Questo ragionamento generale ha in questi mesi una applicazione specifica per descrivere quello che sta accadendo. Il tratto peculiare dell’attuale congiuntura continua a essere l’incertezza, dato l’intreccio peculiare tra aspetti economici e aspetti sanitari. È vero che gli indicatori di incertezza segnalano un miglioramento: per esempio, il World Uncertainty Index ci dice che nell’ultimo trimestre l’incertezza è in constante discesa, dopo il picco raggiunto durante l’emergenza Covid-19 del primo trimestre dello scorso anno. Purtuttavia l’incertezza permane, continuando a influenzare l’offerta di beni e servizi, quindi i relativi prezzi. Alcuni prezzi risentono più di altri dell’effetto yo-yo, come quelli delle materie prime; ma se le aspettative non sono destabilizzate da questi rimbalzi, l’inflazione complessiva non ne risentirà. Il compito delle banche centrali diviene allora quello di formulare annunzi che contribuiscano a stabilizzare le aspettative.
Ma alla semplicità del meccanismo appena descritto corrisponde una crescente difficoltà nella sua attuazione, perchè tra l’economia – famiglie, imprese, mercati – che ascolta e la banca centrale che parla esiste una «scatola nera».
Di cosa si tratta? È la comunicazione sulla politica monetaria, i cui snodi principali posso essere riassunti con tre quesiti. In primo luogo, a chi si rivolgono le banche centrali? L’analisi economica tradizionale ha sempre avuto la tentazione di mettere sul proscenio i mercati finanziari, con l’idea che in essi operino attori che sono molto informati e la pensano più o meno nello stesso modo. Ma la realtà ci dice che non è meno importante quello che pensano consumatori e imprenditori, che per di più spesso hanno attese e credenze eterogenee e volatili. In secondo luogo, chi trasmette le parole delle banche centrali? Sempre l’analisi economica più tradizionale ha trascurato il ruolo degli intermediari delle notizie. Ma, di nuovo, la realtà, nonché gli studi più recenti, ci dicono che tali intermediari sono cresciuti in numerosità e sofisticatezza: ai media tradizionali si sono affiancate e intrecciate le reti sociali: il risultato è che l’informazione non è semplicemente trasmessa, ma modificata, intenzionalmente o meno.
Infine, come e quando parlano i banchieri centrali? La ricerca economica più avanzata, oltre a evidenziare l’importanza degli intermediari delle parole, sta mettendo in luce che le parole stesse, nonché chi le pronunzia e dove vengono pronunziate, sono rilevanti. Il risultato finale è che le parole dei banchieri centrali possono essere buone o cattive. Sono parole buone quelle che creano l’«effetto Ulisse»: il banchiere centrale è creduto, quindi le aspettative reagiscono in maniera conforme alle intenzioni di chi le ha pronunziate. Sono invece parole cattive quelle che provocano l’«effetto Delfi»: il banchiere centrale viene interpretato, cercando la notizia implicita nelle sue parole, causando effetti imprevedibili e indesiderati. Quindi ogni dichiarazione sulla politica monetaria diviene un banco di prova.
Facciamo un paio di esempi. Prendiamo il commento espresso dal vice presidente della FED, Richard Clarida, in maggio, alla notizia dei nuovi dati sui prezzi. Clarida si è detto molto sorpreso, di fronte a un numero inatteso, ma allo stesso tempo sicuro che tale sorpresa sia temporanea. Ma è credibile chi, sorpreso da un acquazzone, dice che tanto sono nuvole passeggere? Insomma: gli effetti Ulisse e Delfi sono le Scilla e Cariddi tra cui dovranno passare i banchieri centrali nei prossimi mesi.
Ma il tema del peso delle parole non riguarda solo i banchieri centrali. Negli stessi giorni, Janet Yellen, Ministra dell’Economia degli Stati Uniti, affermava che occorre interrogarsi sul livello dei tassi di interesse nel suo Paese. L’osservazione è corretta, ma allo stesso tempo è espressa dalla persona sbagliata. Siamo di fronte a una invasione di campo che non fa bene a nessuno: il responsabile della politica fiscale deve essere molto cauto quando si esprime sulla politica monetaria. Altrimenti, l’ambiguità non si riduce, ma raddoppia. In altri termini, è un bene che si accendano i riflettori sui tassi di interesse, quindi sulle responsabilità della FED. È però un male quando lo fa la Ministra dell’Economia. Janet Yellen si deve occupare della dimensione e della qualità della spesa pubblica, ma anche dell’evoluzione attesa del debito pubblico americano. I dati mondiali, ribaditi dalla Banca dei Regolamenti Internazionali a fine giugno, parlano chiaro: lo stock del debito ha superato i livelli raggiunti dopo la Seconda Guerra Mondiale. Invadere il perimetro della politica monetaria non chiarisce nulla, ma aumenta l’incertezza. L’importanza di ben navigare tra le Scilla e Cariddi degli effetti Ulisse e Delfi vale anche per i politici. E non solo per quelli statunitensi.
Per saperne di più:
- Andrade P., Ferroni F., 2020, Delphic and Odyssean Monetary Policy Shocks: Evidence from the Euro Area, Journal of Monetary Economics, July 2020.
- Bassetto M., 2019, Forward Guidance: Communication, Commitment, or Both?, Journal of Monetary Economics, 108, 69-86.
- Bilbiie F.O., 2018, Neo-Fisherian Policies and Liquidity Traps, CEPR Discussion Paper Series, n. 13334.
- Campbell J.R., Ferroni F., Fisher J.D.M., Melosi L., 2019, The Limits of Forward Guidance, Journal of Monetary Economics, 108, 118-134.
Donato Masciandaro è Professore di Economia Politica presso l’Università Bocconi, dove è titolare della Intesa Sanpaolo Chair in Economics of Financial Regulation. Dal 1989 scrive sul Sole 24Ore. Dal 2005 per Economia & Management riprende e sviluppa i commenti e le analisi pubblicate sulle pagine del quotidiano economico-finanziario.