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Sovranismo e moneta: oggi Istabul, ieri Bisanzio
Se un Paese cambia tre Governatori della banca centrale in due anni, come è accaduto in Turchia, vuol dire che la politica monetaria non è credibile. Nessuna meraviglia allora se la lira turca soffra e l’inflazione galoppi. A fine marzo il Presidente Recep Tayyip Erdoğan ha licenziato il Governatore della banca centrale Naci Ağbal, che era stato nominato nel novembre 2019, al posto del governatore Murat Uysal. A sua volta, il governatore Uysal era stato nominato nel luglio 2019 al posto del governatore Murat Çetinkaya.
Come si spiega questo valzer alla banca centrale? Partiamo dall’inizio delle danze. Il decreto che destituiva Çetinkaya non motivava il provvedimento, ma l’interpretazione degli analisti era unanime: agli occhi del Presidente Erdoğan il governatore Çetinkaya era un falco, che stava implementando una politica monetaria dannosa rispetto a quello che è l’obiettivo principale della banca centrale turca, che – come recita il suo statuto dall’aprile 2001 –è la stabilità dei prezzi. Nell’agosto del 2018 l’inflazione turca aveva raggiunto il livello record del 25 percento. Çetinkaya, applicando una strategia di politica monetaria ortodossa, aveva innalzato il tasso di interesse di riferimento al 24 percento; l’inflazione era scesa nel giugno 2019 al 15,7 percento. Ma il risultato era stato evidentemente insufficiente per il Presidente Erdoğan, che sostituiva Çetinkaya con il suo vice.
In quei mesi, veniva attribuita al Presidente Erdoğan una visione del rapporto tra moneta e inflazione alternativa a quella ortodossa: per far calar l’inflazione occorre ridurre i tassi di interesse. È una visione che può trovare nell’analisi economica almeno due diversi fondamenti teorici. Da una parte, c’è la cosidetta teoria fiscale dei prezzi al consumo: se si pensa che l’andamento dell’inflazione dipenda dal profilo della spesa pubblica e dal suo finanziamento, si può sostenere che con spese più basse – perchè i tassi che lo Stato paga sui suoi debiti sono più bassi – anche i prezzi al consumo rallenteranno. Da un altro punto di vista, si può pensare che nella relazione tra i tassi nominali e l’inflazione si muova nel senso contrario rispetto a quello che l’economia monetaria ortodossa assume, cioè che siano i tassi di interesse a muovere l’inflazione; è la prospettiva cosidetta neo-fischeriana. Una simile prospettiva si può giustificare se si assume che i tassi reali non dipendono mai dalla politica monetaria, per cui variazioni dei tassi nominali influenzano l’inflazione attraverso il meccanismo delle aspettative. Per cui una politica monetaria espansiva segnala all’economia che l’inflazione non è più un problema, quindi famiglie, imprese e mercati incorporano tale informazione nelle loro attese e quindi nelle loro scelte, e l’inflazione scenderà di conseguenza. Il contrario avviene invece se i tassi di interesse non scendono, o addirittura salgono. Insomma, due approcci non ortodossi alla politica monetaria possono essere utilizzati per spiegare l’allergia agli alti tassi di interesse, tipica delle cosiddette colombe, che è stata attribuita al Presidente Erdoğan.
Utilizzando la distinzione tra colombe e falchi, la politica monetaria di Uysal era stata da colomba, ma l’inflazione e svalutazione non si erano fermate. Così lo scorso novembre, La sostituzione di Uysal con Ağbal era stata interpretata come un ritorno all’ortodossia, cioè a un approccio da falco: per contrastare inflazione e svalutazione i tassi di interesse devono risalire. Così è stato. A marzo si è assistito all’ennesima giravolta: al posto di Ağbal è stato nominato Şahap Kavcıoğlu, a cui i media attribuiscono un approccio da colomba” quindi in linea con i desiderata del Presidente. A metà aprile, la sua prima decisione è stata quella di non abbassare i tassi di interesse, ma ha aperto alla possibilità di farlo, in presenza di un rallentamento dell’inflazione. Il cambio della lira turca ne ha sofferto. La morale? La suggerisce l’approccio di analisi economica che va oltre la dicotomia falchi contro colombe: che sia falco o colomba, chi decide la politica monetaria conta poco, se la banca centrale non è abbastanza indipendente dalla politica.
Il ragionamento è semplice: la politica monetaria è efficace solo se è credibile agli occhi di famiglie, imprese e mercati; a sua volta la credibilità ha come sua condizione necessaria la separazione tra politica e moneta, perché il politico ha una endemica tendenza a mal utilizzare la moneta, perché il consenso politico immediato viene prima del benessere collettivo di più lungo periodo. Qui l’indicazione della analisi economica trova un sistematico riscontro nella storia: se il politico in carica non è separato dalla moneta, finirà per comportarsi come un sovrano. E che cosa facevano i sovrani quando controllavano la moneta? Se non avevano problemi di consenso, la moneta poteva seguire le esigenze della produzione e del commercio; altrimenti, diveniva lo strumento per risolvere i problemi del sovrano, non del suo Paese.
È il cosiddetto approccio fiscale alla politica monetaria: la produzione di moneta è una forma di gettito fiscale. La prospettiva fiscale alla moneta è sicuramente molto antica: parte del presupposto che il valore della moneta sia maggiore del costo necessario per produrla. La differenza tra valore e costo di una moneta è il signoraggio, un termine che richiama il privilegio di chi aveva il potere di battere moneta di estrarre da essa un vantaggio fiscale.
Alle origini l’uso fiscale coincideva con forme più o meno sofisticate di manipolazione monetaria: l’obiettivo era quello di tassare i propri sudditi, senza farsene accorgere, con una finalità politica che è vecchia come il mondo: finanziare spesa pubblica, quindi consenso, senza pagare costi economici e politici. Originariamente la manipolazione monetaria avveniva riducendo il contenuto aureo della moneta. Prendiamo il «dollaro del Medioevo», cioè la moneta dell’impero bizantino: la nomisma. Per le esigenze del commercio, il suo contenuto d’oro doveva essere stabile; ma le spese dell’impero andavano finanziate, senza alzare le tasse. Così gli imperatori manipolavano la nomisma. Nel 1025 il bilancio dello Stato ammontava a 5 milioni di nomisma, e una nomisma conteneva oro per il 95 per cento. Ma c’erano guerre da finanziare: manipolando la nomisma – cioè riducendo l’oro contenuto fino all’81 per cento nel 1055 – si aumentarono le entrate pubbliche, in media del 10 per cento. È quello che fece l’imperatore Costantino IX. La manipolazione doveva fermarsi al 73 per cento, perché altrimenti la nomisma diveniva troppo poco gialla, e i sudditi scoprivano l’inganno. Il risultato finale è sempre stato uno svilimento del valore della moneta; prima o poi è sempre comparso almeno uno dei tre cavalieri dell’Apocalisse: l’inflazione, la svalutazione, la bolla finanziaria. Nella storia, finché il sovrano ha controllato la Zecca, la politica ha sempre avuto la meglio sull’economia.
Da questo punto di vista, senza dubbio la Turchia dei tre Governatori in due anni è un esempio moderno di sovranismo monetario. E l’economia e i mercati conoscono la lezione della storia, che è peraltro confermata dalla più recente analisi economica. È una lezione che si riassume in un precetto: la produzione di moneta deve tutelare il potere d’acquisto della popolazione; quindi bisogna evitare le manipolazioni monetarie.
Il rimedio? La produzione della moneta deve essere separata dalla politica, e gestita da una banca centrale indipendente. L’indipendenza deve essere garantita anche sul piano finanziario, quindi il signoraggio assume un nuovo significato: una banca centrale deve saper produrre utili, per non dover bussare con il cappello in mano al politico di turno. I dati relativi a 150 banche centrali per l’ultimo ventennio mostrano in effetti una tendenza a produrre profitti positivi, ma moderati. La banca centrale deve essere indipendente, e per esserlo deve anche essere efficiente, producendo utili, ma la sua finalità non è estrarre signoraggio dalla produzione di moneta. Cosa che invece il politico – sia esso sovrano o governante democraticamente eletto – ha sempre la tentazione di fare.
Per saperne di più:
- D. Kjeliberg, D. Vestin, «The Riksbank’s Balance Sheet and Financial Independence, Sveriges Riksbank», Economic Review, 2019, 2, pp. 5-41.
- I. Goncharov, V. Ioannidou, M.C. Schmalz, «(Why) Do Central Banks Care About Their Profits?», 9 luglio 2020.
- C. Klapanis, «The Debasement of the “Dollar of the Middle Ages”», Journal of Economic History, 2003, 63(3), pp. 768-801.
- A.J. Rolnick, F. Velde, W. Weber, «The Debasement Puzzle: An Essay on Medieval Monetary History», Journal of Economic History, 1996, 56(4), pp. 789-808.
- S. Williamson, «Neo-Fisherism», The Regional Economist, 24(3), luglio 2016.
Donato Masciandaro è Professore di Economia Politica presso l’Università Bocconi, dove è titolare della Intesa Sanpaolo Chair in Economics of Financial Regulation. Dal 1989 scrive sul Sole 24 Ore. Dal 2005 per Economia&Management riprende e sviluppa i commenti e le analisi pubblicate sulle pagine del quotidiano economico-finanziario.