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08/03/2021 Donato Masciandaro

Biden e la FED: un Bubbly New Deal?

Al nuovo presidente degli Stati Uniti Joe Biden sono in tanti a chiedere una politica economica stile «New Deal». Può essere un’attesa legittima, purché sia chiaro un dato fondamentale: Franklin Roosevelt non era seduto su una bolla monetaria e finanziaria.

Da gennaio la FED è entrata in una nuova fase congiunturale: dovrà fare i conti con l’azione di politica economica di Joe Biden, coadiuvato da Janet Yellen. Tanti prefigurano un «New Deal»; forse non a caso è proprio il ritratto di Franklin Delano Roosvelt che ora campeggia nello Studio Ovale, alle spalle del nuovo presidente. Ma quali sono le implicazioni per la politica fiscale e monetaria?

Partiamo allora dalle similitudini e dalle differenze tra la situazione che devono affrontare oggi il tandem Biden-Powell e la situazione congiunturale che, novant’anni fa, si trovò innanzi Roosvelt. L’elemento comune potrebbe essere la rilevanza della recessione economica. In verità, sotto questo aspetto, Biden appare più fortunato di Roosevelt. Nel marzo 1933 Roosvelt ereditò dal suo predecessore Hoover una recessione pari al 13,4 per cento del prodotto interno, un tasso di disoccupazione del 25 per cento e una deflazione del 10,2 per cento. Joe Biden parte da una recessione del 2,8 per cento, un tasso di disoccupazione del 6,7 per cento e un’inflazione del 1,2 per cento. Che Biden sia più fortunato di Roosevelt lo conferma l’analisi comparata delle due recessioni, che può essere misurata da una metrica specifica: l’indice di severità.

La logica dell’indice di severità è semplice e risponde alla domanda: «È possibile misurare quanto lunga e profonda sia stata una caduta recessiva, in termini di perdite di prodotto interno?». Nel caso della Grande Depressione il valore dell’indice – calcolato per il periodo 1929-1933 – è quello più alto della storia americana dal 1790, e anche di molto; per esempio, l’indice di severità corrispondente alla Grande Recessione del 2008-2009 è quasi cinque volte più piccolo di quello relativo alla Grande Depressione. Ovviamente non abbiamo ancora il valore corrispondente all’attuale recessione pandemica, ma possiamo già dire che la salita che Roosevelt si trovò innanzi era molto più ripida di quella che aspetta Biden.

Biden è più fortunato anche per una seconda ragione: l’origine della Grande Depressione fu una bolla finanziaria, e questo rende di solito le recessioni molto più dolorose. La Grande Depressione del 1929 fu infatti una recessione da eccesso di finanza; un tratto che la rende molto più simile alla Grande Recessione del 2008 che alla situazione odierna. I ruggenti anni Venti erano stati caratterizzati dall’incrocio tra una politica monetaria molto espansiva e una deregolamentazione finanziaria; il mix produsse la crescita del debito privato e dei prezzi azionari. La dinamica della bolla monetaria e finanziaria divenne insostenibile con la caduta dei prezzi; la miscela tra eccesso di debito e deflazione fu il detonatore della recessione.

L’origine della recessione pandemica è invece stata assolutamente diversa: uno shock non economico – la pandemia – è stato seguito dalle necessarie politiche pubbliche a tutela della salute. Il mix tra contagio e politiche di contenimento ha colpito sia la domanda sia l’offerta aggregata di beni e servizi. Questa volta –almeno finora – il sistema bancario e finanziario è stato uno strumento indispensabile per affrontare i costi della recessione pandemica, diventando parte della soluzione, non origine del problema.

Infine Biden è più fortunato anche per una terza ragione: le politiche fiscali e monetarie già adesso implementate sono state opposte rispetto a quelle messe in atto negli anni Venti, che proprio l’approccio di Roosevelt ribaltò. La Grande Depressione fu inizialmente affrontata con politiche monetarie e fiscali che, nei tempi e nei modi, oggi giudicheremmo restrittive. All’epoca, infatti, i concetti di politica anticiclica e di regole flessibili per periodi eccezionali non esistevano: il bilancio pubblico doveva essere sempre e comunque in pareggio, e la parità con l’oro sempre e comunque difesa. Con il New Deal di Roosvelt l’analisi economica guadagnò il concetto di politica congiunturale. Roosvelt, pur proveniendo da una tradizione attenta al pareggio del bilancio pubblico, implementò una politica di eccesso di spesa pubblica rispetto alle entrate fiscali. I corrispondenti disavanzi pubblici finirono per raggiunge il livello allora inconsueto del 6 per cento, rispetto al prodotto interno; si noti che Biden oggi parte già da un deficit pubblico pari a quasi il 15 per cento. Ma soprattutto, Roosevelt fece imprimere alla politica monetaria una svolta ultra-espansiva, abbandonando l’ancoraggio all’oro: la crescita della moneta quasi raddoppiò nel giro di quattro anni. Va ricordato che la politica economica del New Deal comprendeva anche significativi interventi sul mercato del lavoro e sulla politica industriale, sulla cui efficacia il dibattito è tuttora aperto. Forse è meno controverso il ruolo che l’efficacia della politica di Roosevelt sia passata anche attraverso il meccanismo delle aspettative: scelte economiche completamente diverse dal passato – se sono credibili – possono rappresentare un motore importante per la crescita economica.

Ma c’è almeno un aspetto in cui il tandem Biden-Powell è meno fortunato: Roosevelt non sedeva su una bolla monetaria e finanziaria. La politica monetaria della FED è da tempo ultra-espansiva: in termini di moneta, la crescita degli ultimi dodici mesi è stata del 22,2 per cento, rispetto a una media nell’ultimo decennio sotto il 5 per cento. Anche la politica fiscale è già ultra-espansiva: il debito pubblico americano prima della crisi pandemica era pari al 79 per cento del prodotto, ora ha raggiunto nel 2020 il 101 per cento. Nello stesso tempo, è cresciuto il debito privato, a cui si aggiunge l’esuberanza dei prezzi azionari. Roosevelt partiva da una situazione opposta: la bolla del debito privato era scoppiata, con i fallimenti a catena di imprese e banche, e il crollo di Wall Street; il debito pubblico nel 1933 era il 33 per cento del prodotto. Qualunque sarà il nuovo New Deal, è una differenza che sarebbe prudente che né Biden né Powel dimenticassero.

Non è un caso che il nervosismo dei mercati finanziari, misurato dal livello dei tassi di interesse, appaia in aumento. È anche vero che è oggi difficile attribuire a una sola causa l’aumento dei tassi nominali. In linea di principio i tassi di interesse – a parità di rischiosità dell’emittente da un lato e rischiosità per la durata del titolo dall’altro – dipendono dalle attese relative: alla crescita economica, all’inflazione, all’incertezza. Tutti e tre motori sono potenzialmente attivi, quindi il puzzle dei rendimenti in salita non è di facile soluzione.

Più in generale, l’attenzione alla dinamica dei debiti deve valere per tutti: l’espansione del debito pubblico seguito alla pandemia è un problema mondiale. A gennaio il FMI ha dichiarato che il debito pubblico globale ha raggiunto nel 2020 il 98 per cento del prodotto interno lordo mondiale, dall’84 per cento dell’anno precedente. Il motore del debito è stato ovviamente la crescita dei deficit pubblici, pari per le economie avanzate e per quelle emergenti rispettivamente al 13,3 ed al 10,3 del prodotto interno. Riguardo l’Italia, i dati relativi al deficit sono per il 2020 e il 2021 (proiezione) rispettivamente al 10,9 e del 7,5 del prodotto interno, con il debito che sale nei dati rispettivamente ai livelli del 157,5 e del 159,7 per prodotto interno. Quindi anche a Roma è prudente che si abbia come sua stella polare il rapporto tra le variabili fiscali e la crescita economica. Perché sono i dati che osservano i mercati, e un debitore deve porre sempre attenzione a quello che conta per i suoi creditori, se non vuol finire da un giorno all’altro in bancarotta.

 

Per saperne di più:

Eichengreen B., 1992, Golden Fetters: The Gold Standard and the Great Depression: 1919-1939, New York, Oxford University Press.

Eichengreen B., 2014, Hall of Mirrors: The Great Depression, the Great Recession, and the Uses and Misuses of History, New York, Oxford University Press.

Eggertsson G.B., 2008, «Great Expectations and the End of the Depression», American Economic Review, 98(4), 1476-1516.

Hannsgen G. and Papadimitriou D.B., 2009, Lessons from the New Deal: Did the New Deal Prolong or Worsen the Great Depression?, Bard College, Levy Economics Institute Working Papers, n.581.

International Monetary Fund, 2021, Fiscal Monitor, Juanry.

Ohanian L.E., 2016, The Great Recession in the Shadow of the Great Depression, NBER Working Paper Series, n.22239.

Tavlas G.S., 2016, New Perspectives on the Great Depression: A Review Essay, CHOPE Working Paper Series, n.28.

 

Donato Masciandaro è Professore di Economia Politica presso l’Università Bocconi, dove è titolare della Intesa Sanpaolo Chair in Economics of Financial Regulation. Dal 1989 scrive sul Sole 24Ore. Dal 2005 per Economia & Management riprende e sviluppa i commenti e le analisi pubblicate sulle pagine del quotidiano economico-finanziario.

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